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Cobra Kai, quando il cattivo di Karate Kid diventa l'eroe

Nella serie cult di Netflix il sequel (bello) di Karate Kid

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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 Cobra Kai la serie tv Foto:  Cobra Kai la serie tv
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“Togli la cera, metti la cera”, giusto per citare. C’era un film –spettinato, retorico, manicheo finché si vuole- che ha marchiato l’adolescenza di noi padri ora cinquantenni; e alla cui visione, ora, noi padri cinquantenni percorsi da brividi di nostalgia, costringiamo i nostri figli. Nella speranza che i figli lo trasmettano per via orale ai nipoti, bisognosi di vivere la vita sul filo del rispetto e dell’onore. Il film si chiamava Karate Kid, anno 1984. Un cult.

Narrava di Danny LaRusso, un’adolescente sfigato e bullizzato che, instradato da un maestro cintura nera giapponese (il signor Miyagi san) vinceva il torneo della scuola e spaccava il naso al bullozzo scorretto Johnny Lawrence. Era un inno ai buoni sentimenti, alla tenacia e al rispetto dei più deboli. Ci fecero un paio di sequel di non brillante fattura.

Nessuno sano di mente avrebbe mai pensato di riprendere quella storia 34 anni dopo. Soprattutto nessuno si sarebbe mai azzardato a trasformare il personaggio di Lawrence, ex pupillo dell’upper class ariana, in un fallito sbavazzone di mezz’età che si arrabatta in lavoretti da idraulico, vanta un matrimonio distrutto con una moglie un po’ mignotta e un figlio 16enne che si fa le canne e lo odia. Eppure, prima su Youtube, e poi su Netflix Cobra Kai (“Cobra Kai never die” è il claim), così impostata, è diventata una delle serie più vista al mondo. La trama della serie rovescia quella del film, in un meccanismo d’immedesimazione molto efficace e un racconto anche registico assai vintage. Qui, ora, Danny è il re dei venditori di auto usate (considerato mestiere abbastanza ignobile, in America) che consegna bonsai giapponesi ai clienti e che educa i propri eredi come cocchi viziati credendo di avere la verità in tasca. Mentre Johnny, stimolato da un ragazzino portoricano a sua volta bullizzato da un cinese, scopre la sua autentica indole di protettore dei deboli, degli oppressi, degli emarginati attraverso la sua scuola, Cobra Kai appunto. Il portoricano Miguel diventa, in pratica, il nuovo Karate Kid; e alla scena catartica in cui prende a calci i suoi persecutori a scuola, i miei figli hanno fatto la ola. Sicché tra allenamenti estenuanti in piscina e sul tatami, e flashback del vecchio film, la trama s’addensa, col vecchio Karate Kid, Danny, che allena inconsapevolmente il figlio di Johnny. Non pensavo durasse una puntata. Siamo già alla terza stagione. E io ci rimango incollato sopra…

 

 

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