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Secret City, se politica e spy story sguazzano nella terra dei canguri

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Harriet Dunkle è una cronista tosta dalla bellezza sussurrata che ha la cattiva abitudine, al mattino, di far canottaggio tra gli squarci naturalistici di Adelaide, in Australia; e così facendo inciampa nel cadavere squartato di una spia (pare di capire).

Da lì, in uno scenario non inedito ma ritmato, si aggiungono i vari elementi narrativi di Secret City (Netflix) spy story ad alto tracciato politico. E cioè: una giovane attivista anticinese pro liberazione del Tibet che si dà fuoco, diventa cieca e viene tenuta prigioniera dai servizi segreti di non si capisce la nazionalità. Poi c’è un drone che fa saltare per sbaglio una casetta con famiglia incorporata. E dopo si aggiungono, via via, in un crescendo incasinato: un ministro delle Difesa che tifa per i cinesi e va a letto con la moglie dell’ambasciatore che si scopre essere una spia; e una ministra degli Interni che somiglia alla “M” dei film di James Bond di cattiveria indicibile e fa il triplo gioco; e un capo dell’Intelligence che tiene d’occhio un collega, l’ex marito della cronista di cui sopra, il quale si è scoperto transgender e ha fatto l’operazione per cambiare sesso e poi viene ammazzata per aver scoperto un terribile segreto racchiuso in una scheda Sim. Ad un certo punto della storia, l’Australia (in cui è ambientata la serie) decide di essere sotto attacco e introduce una legge marziale che annulla la libertà di stampa e, a causa della quale, la solita cronista, pur avendo fatto saltare un complotto, finisce in galera. Queste le prime 6 puntate. Nelle seconde 6, la giornalista esce da gattabuia, diventa ufficio stampa di una politica d’opposizione e si ritrova in un incrocio di delitti, segreti di Stato e scandali governativi che fanno venire voglia di tornare in cella a respirare aria pulita. Ecco, questo è Secret City.

Un thriller politico ottimamente scritto e ben girato - a volte un po’ lento- che induce due riflessioni, anzi tre. La prima è che ho scoperto che l’Australia, un luogo che pensavo producesse solo canguri o, al massimo, Nicole Kidman e Cate Blanchett, può essere un luogo più sanguinario della cortina di ferro durante la Guerra Fredda. La seconda è che tutte le attrici australiane -in questo caso Anna Torv, la collega- sono uguali a Cate Blanchett e Nicole Kidman. La terza è che, giri che ti rigiri, spuntano sempre più governi peggiori del nostro…

 

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