Stiamo con Paolo (quando la commozione avvolge Sanremo)
Sul palco dell'Ariston il Paolo con la Sla e il Paolo Jannacci
Siamo nella stessa lacrima, canterebbe Elisa. Di solito, in tv, l’unica cosa che riesce a commuovermi sono i film di Frank Capra tipo La vita è meravigliosa o, al massimo, qualche vecchio episodio di Heidi. In questo festival di Sanremo ho alzato notevolmente la mia media. Quando, l’altra sera, ho visto questo ragazzo di 22 anni, Paolo Palumbo, steso sul palco, vestito d’un blazer arabescato che emetteva bagliori, conficcato in una poltrona, inchiodato davanti a un computer che traduceva il suo batter di palpebre in parole ed emoticon trasformate in canzone; bè lì, mi è successo qualcosa. Lì ammetto che la botta allo stomaco è arrivata fortissima, è s’è arrampicata alla gola, ed è salita su su fino al condotto lacrimale. Conoscevo la storia di quest’aspirante chef di Oristano che “quattro anni fa s’è reso conto improvvisamente di non riuscire più a tenere la padella tra le mani” ammalandosi di Sla, dice Amadeus, anche lui con lo sguardo liquido. E sapevo che Ama gli aveva promesso che questo suo dolore, raccontato in rap, sarebbe diventato la denuncia del Festival contro una malattia che rende il corpo prigione; e il memento verso ogni uomo di buona volontà. Ed ero a conoscenza del fatto cha Paolo, accompagnato da un amorevole fratello e da un rapper/alter ego canoro, sarebbe comparso all’Ariston aggrappato al macchinario che lo sta tenendo in vita. Era tutto previsto, insomma, tranne la potenza dell’emozione. Mentre l’amico rapper cantava Io sto con Paolo la contro -inquadratura se ne stava sullo sguardo del ragazzo che filava i pensieri come in una sorta di tenerissimo alfabeto Morse. A fine del brano autobiografico, la voce sintetizzata di Paolo ha raccontato nei dettagli il suo sogno: «La mia non è la storia di un ragazzo sfortunato, ma di un ragazzo che non si è arreso. I limiti sono solo dentro di noi. Ricordate che il tempo che abbiamo a disposizione è poco ed è nella mente che ristagnano le disabilità più gravi. Credete nei vostri sogni, quando vi prefissate un obiettivo fate di tutto per realizzarli». Ama l’ha abbracciato e gli ha cucito addosso dei gran complimenti per la giacca, ma si vedeva che forniva all’inevitabile standing ovation del pubblico tutto il pacchetto. Paolo emetteva scosse d’umanità, attraverso i fonemi metallici di un robot. Conosco la fatica del gesto. E’ roba inumana. L’avevo già osservata in un’intervista all’astrofisico Stephen Hawkins: mentre gli parlavo, sentivo lo scienziato, dentro di sé, montare di risate, parole e pensieri; ma tutto quel flusso emotivo finiva distillato nel lungo, lunghissimo, quasi eterno tempo di elaborazione del macchinario. Dell’esplosione della nova che aveva dentro intravedevo soltanto un lontano lampeggiare nello sguardo. Per Paolo la sensazione è la stessa. L’emozione non ha voce, tanto per rimanere in tema canoro. Io ero già conciato malaccio, gli occhiali appannati e la mano lesta sul kleenex. E poi c’è stata la canzone di Tosca. E, infine è arrivato Paolino Jannacci, il quale, assomigliando in maniera sempre più impressionate al padre Enzo, ha intonato Voglio parlanti adesso, dedicato alla necessità del tempo speso per veder crescere i tuoi figli. Altro groppo in gola. La fortuna è che a mezzanotte erano tutti a letto, e mi sono risparmiato la solita fesseria del bruscolino nell’occhio…