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Scrivere un biglietto di scuse diventa un atto eroico

Lucia Esposito
Lucia Esposito

Da grande volevo fare la giornalista e così, diversi anni fa, da Napoli sono arrivata a Milano per uno stage di due mesi. Non sono più tornata. Responsabile Cultura di Libero, accumulatrice seriale e compulsiva di libri e pensieri. Profondamente inquieta, alla ricerca costante di orizzonti in cui ritrovarmi (o perdermi).

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Scusa: sono solo cinque lettere, eppure restano intrappolate in gola, le bisbigliamo a fatica, sottovoce, vergognandoci molto più di quando diciamo una parolaccia. Scrivere un biglietto di scuse - poi - è diventato un fatto talmente eccezionale che, quando accade, finisce sui giornali. Come il caso del ragazzino che giocando a calcio nel giardino condominiale scaraventa la palla contro un vaso che va in frantumi. Nessuno vede la scena. L’undicenne può scappare, come fanno migliaia di adulti quando sfregiano la fiancata di un’auto o distruggono lo specchietto retrovisore mentre cercano di parcheggiare. Uno sguardo attorno, la certezza di farla franca, poi ingranano la marcia e si dileguano. «Chissenefrega», «Anche a me hanno danneggiato l’auto», «Non mi ha visto nessuno», questa più o meno la cascata di pensieri che inonda la nostra mente quando commettiamo un errore e cerchiamo solo di cavarcela. Il ragazzo che rompe il vaso, invece, prende un pezzo di carta e scrive: «Buongiorno, mi scusi per la pianta. L’ho colpita accidentalmente con un pallone da calcio. Ecco 5 euro per il danno» 
Il piccolo fa quello che si dovrebbe fare, ma ormai chiedere scusa è talmente raro che l’episodio è finito nelle aule dell’università. <Giovanni Grandi professore di Filosofia morale a Trieste ha trasformato questo semplice biglietto in un caso di studio e poi ha raccolto le sue lezioni in un libro che s’intitola  Scusi per la pianta  (Utet, 125 pp., euro 12).>

]Il prof parte da un episodio apparentemente banale per porre interrogativi enormi. Primo tra tutti: perché insegniamo ai bambini ad essere responsabili, ad ammettere le loro colpe, e noi adulti non riusciamo a fare lo stesso? Perché facciamo tanta fatica ad assumerci le nostre responsabilità? «Perché non siamo in grado di fare qualcosa per degli sconosciuti, perché pensiamo che chiedere scusa rovini la nostra reputazione o sia segno di incoerenza, di debolezza. Soprattutto i politici credono che ammettere di aver sbagliato indebolisca la loro posizione», spiega il professor Grandi. «A differenza dei bambini, noi adulti non sempre siamo capaci di empatizzare, di capire il male che un nostro gesto o una parola può causare a un altro e, nel confronto con un’altra persona, siamo solo protesi ad avere ragione. E poi siamo condizionati dall’abitudine, dalla vita vissuta. Magari in passato siamo stati vittime di un errore altrui e questi non si è né scusato né ha risarcito il danno». Insomma, ci creiamo degli alibi, delle buone ragioni per non abbattere il muro della nostra presunta invincibilità e ammettere di avere sbagliato. Qualche mese fa a fare notizia è stato un altro biglietto di scuse, quello che alcuni malviventi hanno lasciato sul sedile dell’auto rubata ad una donna malata di sclerosi multipla. «Anche noi abbiamo un cuore. Scusateci, non sapevamo della vostra patologia. Scusateci ancora i ladri», hanno scritto restituendo la vettura dopo che la figlia della donna aveva lanciato un appello sui social: «Il 13 gennaio hanno trafugato l’unico mezzo di libertà di mia madre: non una semplice auto facilmente sostituibile in caso di necessità (...) Mettetevi una mano sul cuore e ridatecela». Per cinquant’anni un turista ha avuto sulla coscienza il peso di un frammento di un reperto portato via da Pompei. Dopo mezzo secolo il ladro non ha più retto al rimorso, ha preso carta e penna e ha scritto il biglietto di scuse: «<Cinquant’anni fa ho asportato da un edificio questo frammento. Me ne vergogno e lo restituisco al proprietario. Scusate». Sapendo di aver commesso un reato, l’uomo si è ben guardato dal firmare il biglietto. A fine gennaio, per il giorno della memoria, sono arrivate inaspettate le scuse dei Savoia. In una lettera inviata alla comunità ebraica Emanuele Filiberto ha scritto: «Condanno le leggi razziali del 1938 di cui ancora oggi sento tutto il peso sulle mie spalle. Con me, tutta la Real Casa di Savoia. Non ci riconosciamo in ciò che fece Vittorio Emanuele III: una firma sofferta dalla quale ci dissociamo fermamente. Vi scrivo a cuore aperto una lettera non facile che può stupirvi e forse non vi aspettavate».Un’assunzione di responsabilità che è stata apprezzata ma che, arrivata dopo 83 anni, è stata giudicata tardiva dalla comunità ebraica, e non solo. Ed è invece entrato nella storia il biglietto di scuse datato 1954 che Marilyn Monroe scrisse a Joe DiMaggio sul retro di una ricevuta della lavanderia «Caro Joe, so di aver sbagliato! Ho agito nel modo in cui ho agito e ho detto quelle cose perché ero ferita - non perché ne fossi convinta - ed è stato stupido sentirmi ferita perché in realtà non c’erano abbastanza motivi per esserlo, in definitiva non c’era nessuna ragione. Per favore accetta le mie scuse e non, non, non arrabbiarti con la tua bambina, lei ti ama. Con amore, tua moglie (per sempre) Mrs. J.P. DiMaggio».
<La lettera fu trovata nel portafoglio dell’ex campione di baseball consumata dal tempo in quattro parti uguali, ma non è mai stata restaurata proprio per restituire il senso di questo piccolo tesoro. Il biglietto è stato battuto all’asta lo scorso dicembre per più di 50mila dollari. I biglietti di scuse sono talmente rari che quelli del passato sono preziosi cimeli e quello di un bambino che rompe un vaso diventa prima una notizia, poi un caso di studio e infine un libro. 
Ammettere un errore vuol dire uscire allo scoperto e scendere dal piedistallo della nostra presunta infallibilità. Il paradosso è che in una società in cui tutti mettiamo la faccia sui social per farci notare, quando si tratta di metterci davvero la faccia per chiedere scusa, scappiamo perché temiamo di perderla.

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