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Donne che odiano i simboli delle donne

Brunella Bolloli
Brunella Bolloli

Alessandrina, vivo a Roma dal 2002. Ho cominciato a scrivere a 15 anni su giornali della mia città e, insieme a un gruppo di compagni di liceo, mi dilettavo di mondo giovanile alla radio. Dopo l'università tra Milano e la Francia e un master in Scienze Internazionali, sono capitata a Libero che aveva un anno di vita e cercava giovani un po' pazzi che volessero diventare giornalisti veri. Era il periodo del G8 di Genova, delle Torri Gemelle, della morte di Montanelli: tantissimo lavoro, ma senza fatica perché quando c'è la passione c'è tutto. Volevo fare l'inviata di Esteri, ma a Roma ho scoperto la cronaca cittadina, poi, soprattutto, la politica. Sul blog di Liberoquotidiano.it parlo delle donne di oggi, senza filtri.

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Vanno in piazza con le scarpe rosse, i nastri viola e i cartelli di incitamento alla lotta per le donne scritti con la schwa. Si professano a favore della «sorellanza» ed esibiscono tutto il repertorio del politicamente corretto urlando che «gli spazi delle giovani non si toccano», «l’antiviolenza non si tocca!» e si vantano dei pomeriggi d’incontro con le femministe del centro sociale Lucha y Siesta e dei cortei a favore della Palestina: tutto secondo copione. E, ovvio, contestano «il sistema fascista», «il governo fascista», la polizia «che è fascista» e insistono sul fatto che «è urgente una riflessione su cosa voglia dire il fascismo oggi». Da vere donne de sinistra. Però le attiviste del Collettivo Zaum della Sapienza (Zone autonome università metropoli) ieri con un gesto hanno contraddetto ogni parola, marcia o piazza in sostegno delle donne, compresa quella del 25 novembre al Circo Massimo dove erano presenti in massa con le loro rivendicazioni.

Queste nuove erinni della poco edificante scena politico-universitaria hanno deciso, come maschi qualunque, che la panchina rossa appena inaugurata nel giardino della Sapienza andava distrutta. Non lesionata: proprio smembrata. Da buttare nel cassonetto. Alle 10 del mattino la panchina rossa con su scritto “Amami e basta” c’era, nuova e ricoperta di attenzioni e onori da parte del sindaco Gualtieri, della presidente dell’assemblea capitolina Svetlana Celli e dei giocatori giallorossi, Benedetta Glionna e Leonardo Spinazzola, con le massime autorità dell’Ateneo e la Ceo dell’As Roma Lina Souloukou. Ma un’ora dopo non c’era già più: vandalizzata e smontata come un rottame per volere delle “compagne” e dei loro amici che hanno pure filmato tale prodezza. Su Instagram, infatti, le contestatrici hanno spiegato che a loro «della panchina non frega nulla. Vogliamo centri antiviolenza e consultori». Ignorano, le piccole distruttrici, che una cosa non esclude l’altra e la panchina (che c’è anche a Tor Vergata e in altre città) è solo un simbolo della lotta ai femminicidi e certo non sostituisce politiche e azioni concrete, ma serve a ricordare tante donne, ragazze, tante Giulie che avrebbero potuto sedercisi su e invece ora non possono più farlo perché un uomo, marito, fidanzato o ex, le ha uccise. Devastare quella panchina significa avere capito nulla. Buttarla malamente in caciara. Fortuna che i commenti social e le reazioni, sia di destra che di sinistra, sono stati tutti di netta condanna contro le attiviste, e la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni ha promesso che la panchina rossa sarà presto ripristinata

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