La Pastor bonus, scritta apposta da Ratzinger nel 1988 come "fase 2"
Come abbiamo ampiamente illustrato, il congegno antiusurpazione del card. Ratzinger-papa Giovanni Paolo II è stato messo in cantiere a partire dal 1983: Giovanni Paolo II riceve in quell’anno il dossier sulla massoneria ecclesiastica redatto da Mons. Edouard Gagnon e dà mano libera al card. Ratzinger per riformare il diritto canonico creando “nuove norme e strutture giuridiche” e comminare “grosse punizioni” a una non meglio specificata “sporcizia nella Chiesa”. QUI e QUI) .
Il prefetto della Fede tedesco, come fase 1, inserisce così nel nuovo canone deputato all’abdicazione del papa la necessità di rinunciare al munus petrino, (assente nel precedente, il 221) probabilmente mutuando questo sistema antiusurpazione dal Fuerstenrecht, il diritto dinastico dei principi tedeschi. QUI
AI primi anni ’90 i due sant’uomini fanno costruire in Vaticano il monastero di clausura Mater Ecclesiae, (fase 3) il fortilizio nel quale si sarebbe rinserrato il papa impedito del futuro. Nel 1996 si chiude la preparazione del congegno antiusurpazione con la promulgazione della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, (fase 4) dove si afferma che se la rinuncia del pontefice non è avvenuta a norma del can. 332.2, quello che impone la rinuncia al munus, l’elezione è nulla e invalida senza che intervenga alcuna dichiarazione in proposito.
Il piano viene azionato nel 2013 con la Declaratio (fase 5) e, nel 2020, viene indagato in modo sistematico dallo scrivente che, nel 2021, scopre la sede impedita. Nel 2023, questa viene notificata con 11.500 firme alla Santa Sede con la petizione, QUI recepita dal Segretario di Stato il 20 novembre ’23 QUI e ribadita da altre 3000 firme nel gennaio 2024 QUI.
Tale piano antiusurpazione stenta oggi a concludersi con il sanzionamento e la rimozione di Bergoglio per usurpazione di ufficio ecclesiastico (can 1375) per via dell’ - almeno apparente - inerzia del ceto cardinalizio, delle strategie personalistiche di Mons. Viganò e del voltafaccia dell’intellighenzia una cum, presuntamente cattoconservatrice, che continua a ignorare/dileggiare/contestare strumentalmente con “impugnazione della verità” e “ignoranza affettata” la più ampia e documentata inchiesta che sia mai stata prodotta sulle particolarissime dimissioni dell’ultimo papa.
Così, se al prossimo conclave parteciperanno i cardinali invalidi di nomina bergogliana, la Chiesa – almeno quella canonica visibile che conosciamo - rischia di finire per sempre.
Una delle argomentazioni più intellettualmente degradanti che vengono addotte per contestare il problema chiave della Declaratio (la mancata rinuncia al munus) è che nel diritto canonico munus e ministerium sarebbero sinonimi, e quindi papa Benedetto, rinunciando al ministerium, avrebbe di conseguenza rinunciato al munus.
A volte si tenta di supportare tale assurdità con l’argomentazione per cui il papa – effettivamente - non può separare sua sponte il munus dal ministerium: così, Benedetto rinunciando a “fare il papa”, avrebbe automaticamente rinunciato anche ad “esserlo”.
Un’argomentazione smentita totalmente dal fatto che proprio in sede impedita, cioè in stato di confino/esilio/prigionia il papa deve rinunciare per causa forza maggiore al ministerium, il potere di governare, ma mantiene il titolo, l’investitura divina. Non è difficile: così come fa parte dell’essere padre allevare ed educare i figli, se il padre è in galera, resta sempre padre, ma deve rinunciare a “fare” il padre.
Fu infatti la convocazione del conclave illegittimo, come recentemente confermato anche dal volume “Habemus antipapam?” di don Fernando Cornet QUI a detronizzare Benedetto, il quale "si offrì liberamente" alla sede impedita.
La risibile scusa addotta da alcuni, è che Benedetto XVI avrebbe usato alternativamente munus e ministerium nella Declaratio “per non ripetersi”, per una questione di eleganza formale.
A questo punto, in due settimane di preparazione della Declaratio, se i due termini fossero sinonimi, perché Benedetto non ha scritto “le mie forze non sono più adatte per esercitare il ministerium” e quindi “dichiaro di rinunciare al munus”? Tanto valeva mettere i termini al posto giusto, per non creare la minima ambiguità. Tanto più che gli Acta Apostolicae Sedis parlano di de MUNERIS episcopi Romae abdicatione (abdicazione al munus che è prevista, anche se non c’è mai stata).
Supporre che Benedetto XVI possa aver utilizzato a casaccio questi due termini, (creando poi una catastrofe canonica) è semplicemente DEMENZIALE, considerando che lo stesso card. Ratzinger aveva introdotto il munus nel can 332.2, nel 1983, e aveva ribadito la necessità di rispettare questo specifico canone nella Universi del 1996. Per non parlare del fatto che nella stessa Declaratio lui specifica che quel ministerium al quale dichiara di rinunciare gli è stato conferito “per mano dei cardinali”, i quali possono conferire solo il potere di “fare il papa”, in quanto l’”essere papa” giunge per disposizione divina, come afferma l’art. 53 della Universi Dominici Gregis.
Ma Ratzinger conosceva l’animo umano, e la sua sconfinata malafede.
Ciò che abbiamo appena scoperto con l’aiuto di giuristi e storici della Chiesa è che il card. Ratzinger preparò opportunamente una fase intermedia tra 1983 e 1996: la fase 2.
Lui sapeva che i nemici della Chiesa avrebbero giocato sporco adducendo una presunta sinonimia tra munus e ministerium, perciò scrisse appositamente la costituzione apstolica PASTOR BONUS nel 1988, dove fin dall’introduzione, e in MANIERA OSSESSIVA per tutto il testo viene ribadita la differenza incolmabile tra ciò che è munus e ciò che è ministerium. Vi basti pensare che il primo termine RICORRE BEN 135 VOLTE E IL SECONDO 53!
Ratzinger ribadirà questa differenza perfino nel rogito inserito nella sua cassa funebre, cambiando nella Declaratio citata il verbo da exsequor a exerceri per sottolineare – ancora e ancora - che il munus è un dono divino, un’essenza spirituale che deve essere ESERCITATA, RESA ESECUTIVA, APPLICATA con il ministerium: essere e fare. QUI.
Ma vediamo come già solo nell’introduzione della Pastor Bonus, il card. Ratzinger definisce in modo INEQUIVOCABILE LA DIFFERENZA FRA I DUE TERMINI. Citiamo fra parentesi il termine corrispettivo della versione latina. Potete controllare voi stessi QUI.
Paragrafo 1 (Introduzione)
“Il Buon Pastore Cristo Gesù, ha conferito ai Vescovi, successori degli Apostoli, e in special modo al Vescovo di Roma, la missione di ammaestrare tutte le nazioni e di predicare il Vangelo a ogni creatura perché fosse costituita la Chiesa, Popolo di Dio, e a tale scopo l’ufficio (munus) dei Pastori di questo suo popolo fosse realmente un servizio (servitium); e tale servizio nella sacra Scrittura è chiamato significativamente diaconia o ministero (ministerium)”.
L’incarico di predicare il Vangelo ricevuto da Cristo dal vescovo di Roma, il munus, si realizza quindi in UN SERVIZIO CHE SI CHIAMA MINISTERIUM. Il ministerium è il servizio.
E ancora al paragrafo 2:
“…Come quindi permane l’Ufficio (munus) del Signore concesso singolarmente a Pietro primo degli apostoli e da trasmettersi ai suoi successori, …”.
Dunque È SOLO IL MUNUS, l’incarico, l’ufficio, CHE VIENE TRASMESSO AI PAPI, successori di Pietro e non il ministerium.
Paragrafo 3:
“Questa necessaria relazione del munus Petrino con l’ufficio (munus) E il ministerio (ministerium) degli altri Apostoli …
Qui si menziona sia l’Ufficio che il ministero degli Apostoli, con la congiunzione “e”si evidenzia che si tratta di due concetti distinti.
In tutta la Pastor bonus mai una sola volta il termine munus è stato utilizzato con riferimento al servizio, né mai il termine ministerium è stato usato con riferimento all’incarico o ufficio petrino, così come in tutto il diritto canonico.
Ed è questo l’oggetto della rinuncia di papa Ratzinger.
E allora, se Benedetto XVI non ha lasciato la sede vacante a norma del can. 332.2 che richiede la rinuncia al munus, visto che il ministerium è cosa diversissima dal munus, per la Universi Dominici Gregis l’elezione di Bergoglio è nulla e invalida, senza che intervenga alcuna dichiarazione in proposito. Fine della discussione.
Aggiungiamo un ulteriore approfondimento (per addetti ai lavori) del prof. Gian Matteo Corrias che ha analizzato lo studio del cardinale canonista ungherese Péter Erdö, che era stato invocato da certuni per brandire l’argomentazione fasulla della sinonimia. Da tale studio, scritto in latino e letto attentamente, risulta ancora una volta che ministerium non può mai essere individuato come sinonimo di munus petrino, unico ente al quale il papa deve rinunciare se è intenzionato all’abdicazione.
APPROFONDIMENTO
del Prof. Gian Matteo Corrias,
latinista e saggista storico religioso
I termini munus e ministerium occorrono nell’uso canonistico secondo una certa variabilità semantica e, assieme ad un terzo vocabolo, officium, si approssimano reciprocamente sulla base di non irrilevanti elementi di tangenza. La perfetta sinonimia tra i due sostantivi munus e ministerium, da qualche osservatore indicata e stabilita a sostegno della tesi della piena e indiscutibile validità dell’abdicazione di Benedetto XVI, è tuttavia smentita da un’analisi delle fonti canonistiche recenti.
In un saggio pubblicato del 1989 (Ministerium, munus et officium in Codice Iuris Canonici, in Periodica de re morali, canonica et liturgica 78 [1989], pp. 411-436) il canonista ungherese cardinale Peter Erdö presenta il resoconto ragionato di un’indagine sistematica delle occorrenze dei tre termini officium, munus e ministerium nella letteratura canonistica, segnalandone le differenti accezioni e presentando i contesti d’uso in cui queste sono attestate. Nella parte conclusiva del saggio (pp. 425-432) Erdö si concentra sulle accezioni d’uso di questi termini nel codice vigente (la revisione del 1983), entro il cui quadro normativo deve essere valutata la declaratio per mezzo della quale Benedetto XVI formalizzava la sua rinuncia l’11 febbraio 2013.
Dall’indagine dello studioso risulta in maniera chiara che, nei documenti canonistici recenziori:
a) Munus ricorre prevalentemente («quasi tantummodo», “quasi esclusivamente”) nel suo significato più generale e proprio di «gradus dignitatis» (“grado di dignità”), ovvero nel senso di «summa iurium et onerum» (“insieme dei diritti e dei doveri”). Di fatto munus giunge a rappresentare, nella canonistica recente una «notione magis generali iuris de officiis et servitiis vel ministeriis tractantis» (“una nozione più generale del diritto, relativa agli uffici, agli incarichi o ministeri”). È questo, con tutta evidenza, il senso con cui Benedetto XVI intende il concetto di munus nella sua declaratio, dove ne evidenzia l’ “essenza spirituale”: «Bene conscius sum hoc munus secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo, sed non minus patiendo et orando exsequi debere» (“Sono ben consapevole del fatto che questo munus, secondo la sua essenza spirituale, debba essere reso esecutivo [= attuato, tradotto dal dominio del diritto a quello della prassi] non solo con l’azione e con la parola, ma non meno con la sofferenza e con la preghiera”).
b) La nuova disciplina canonistica – osserva Erdö – ha introdotto un’inedita accezione speciale, piuttosto circoscritta e non del tutto scevra di incertezze («sat raro et numquam clare», “alquanto raramente e mai chiaramente”) di munus, in alcuni casi impiegato nel senso di obligatio, termine tecnico del diritto che indica – secondo l’attestazione del Thesaurus Linguae Latinae – «actus [...] eiusve actus effectus, quo quis iure civili ad aliquid dandum faciendum praestandum obstringitur», “l’atto o l’effetto di un atto giuridico per cui qualcuno è obbligato a dare, fare o compiere qualcosa”, ovverosia il “vincolo giuridico” o il “compito giuridicamente implicato da una funzione”: es.: «munera officio inhaerentia» (“i compiti inerenti alla funzione”). Questa speciale accezione di munus come obligatio (= “vincolo giuridico”, “compito”) è individuata da Erdö in particolare con riferimento ai luoghi del Codex relativi alla dottrina teologica dei tria munera Christi (“i tre uffici”, “i tre compiti” di Cristo), cui ogni cristiano partecipa in virtù del sacramento battesimale: il munus profetico, quello regale e quello sacerdotale (cann. 204 §1; 375 §2; 519).
c) Limitatamente a quest’ultimo dominio semantico, speciale e molto circoscritto, munus presenta una ristretta zona di sovrapponibilità semantica con il termine ministerium, il quale, sulla base dell’escussione del Codex del 1983 e dei documenti conciliari realizzata da Erdö, se nella stragrande maggioranza dei casi (ben 57 su 70) è utilizzato nel senso di «actio ministrandi» (“l’azione dello svolgere un servizio”, ossia l’esercizio pratico di una funzione), parrebbe tuttavia risultare impiegato 7 volte su 70 (e dunque in casi specialissimi e oltretutto dubbi) appunto nel senso di obligatio, «munus, negotium, opus quod agendum imperatur» (“compito, incarico, opera che viene ordinato di svolgere”).
Ebbene, questa tangenza semantica tra munus e ministerium, indiretta e parziale perché circoscritta al senso limitato di obligatio che sia munus sia ministerium possono raramente assumere (“vincolo giuridico”, “compito” cui il detenere una certa carica obbliga), non può in alcun modo essere addotta come prova di sinonimia tra i due sostantivi, e questo per tre ordini di ragioni:
1) Sia munus sia ministerium hanno un loro significato più ampio e generale, ma peculiare per ciascuno dei due termini, e cioè munus = grado di dignità; ministerium = l’azione dello svolgere, dell’eseguire un servizio, e il loro corredo semantico non può essere ridotto al solo senso – lo ripetiamo – parziale e specifico – di obligatio.
2) Più in profondità, e più specificamente in relazione al munus petrino, per designare l’investitura pontificia nel Codex del 1983 (cann. 331-335) si fa specifico ed esclusivo ricorso del termine munus (Erdö, p. 428), e non invece al termine ministerium, che non vi ricorre mai.
3) Il munus di Romano Pontefice non può in alcun modo essere ridotto al solo concetto di obligatio (nel quale caso sì, una rinuncia al ministerium di vescovo di Roma implicherebbe la rinuncia al munus petrino): lo dimostra la fondamentale precisazione del canonista per cui il senso di munus petrino come obligatio non è esclusivo, ma «coalescit cum […] sensu “muneris” gradus dignitatis seu summam iurium et onerum […] exprimenti» (“fa corpo unico con l’accezione di munus come grado di dignità esprimente la somma dei diritti e dei doveri”). Detto altrimenti, quando è impiegato per designare l’ufficio primaziale del Sommo Pontefice, il termine munus non ha solo il valore specifico di obligatio (“compito”), ma anche quello più generale di «gradus dignitatis» (“grado di dignità”, “investitura divina”).
Ne consegue che, a partire dall’uso canonistico di munus in relazione all’ufficio primaziale del vescovo di Roma analizzato da Erdö, una abdicazione piena e indiscutibilmente valida del Sommo Pontefice può essere attuata in via esclusiva attraverso la rinuncia al munus, termine che nella letteratura canonistica recente non solo è l’unico impiegato per designare l’incarico affidato da Cristo all’apostolo Pietro, ma – più generalmente – significa esso solo in modo univoco ed esclusivo il “grado di dignità”, inteso come “somma dei diritti e dei doveri” (senso che – lo si ricordi – Erdö sottolinea fare corpo unico con il senso di obligatio/incarico nel caso del Romano Pontefice), laddove ministerium non ha mai questo significato di “gradus dignitatis”, ma indica sempre e soltanto l’ “azione di svolgere un servizio” o gli “incarichi che viene ordinato di svolgere”.
Erdö presenta anche una terza accezione di ministerium, del tutto residuale (6 occorrenze su 70), quella cioè di «officium ministrandi» (ufficio di ministro), limitatamente al caso specialissimo di quelli che un tempo erano i cosiddetti “ordini minori” del lettorato e dell’accolitato, che in alcun modo possono essere invocati a chiarificare la situazione relativa alla somma potestà del Romano Pontefice e i quali – oltretutto – a partire dal 1975 (con la lettera apostolica Ministeria quaedam di Paolo VI) sono stati declassati dal rango di ordini sacri (“gradus dignitatis”), quali erano nella disciplina antica, a quello di puri e semplici ministeri”.