Cerca
Logo
Cerca
+

Il Canto lirico italiano candidato all'Unesco. Capiremo il giacimento d'oro sul quale siamo seduti?

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Vai al blog
  • a
  • a
  • a

Una buona notizia, che impone tuttavia alcune doverose riflessioni. Il sottosegretario alla Cultura Lucia Borgonzoni (Lega) ha reso nota, ieri, la presentazione ufficiale a Parigi della candidatura nazionale de “L’Arte del Canto Lirico Italiano” per l’inserimento nel Patrimonio Culturale Immateriale UNESCO.E’ un primo risultato – spiega Borgonzoni -  che riconosce un mondo in grado di raccontare come pochi altri la nostra storia, quell’immenso bagaglio di tradizioni e competenze che contraddistingue il nostro Paese, su cui puntare più che mai in questo momento storico. Un riconoscimento morale, innanzitutto, per un settore pesantemente penalizzato dal Covid, ma a questo seguiranno provvedimenti pratici per tutelare, a livello contributivo, il lavoro dei nostri artisti lirici all’estero. Importante sottolineare che la lista Unesco non tutela tanto l’unicità, quanto l’importanza che un determinato patrimonio ha avuto per tutto il mondo”.

In effetti, se c’è una cosa per cui l’Italia è universalmente apprezzata, senza se e senza ma, è proprio l’opera italiana, nata con la Camerata de’ Bardi fra ‘500 e ‘600 a Firenze e sviluppatasi, negli ultimi splendori, fino al ‘900. Stupisce, tuttavia, apprendere che tale candidatura segua l’inserimento nel patrimonio immateriale Unesco delle - pur degnissime - arti della cerca dei tartufi, delle perle di vetro, dei suonatori di corno da caccia, dei muretti a secco e, ovviamente dell’immancabile pizza. Va tutto bene, ma… senso delle proporzioni, ne abbiamo?

L’Unesco fu fondata nel 1945 ed è un po’ come se, ad oggi, l’Arabia Saudia si fosse consapevolizzata, con 77 anni di ritardo, dell’importanza del petrolio come risorsa energetica: siamo seduti su un giacimento d’oro, ma non lo sappiamo.

Potrebbe essere utile, a tal proposito, ricordare come uno dei progetti più straordinari di valorizzazione del Belcanto si debba, oggi, a un colto, generoso melomane INGLESE, Paul Atkin, che da anni, a Venezia, sta tentando di ricostruire, filologicamente tutto in legno, il PRIMO TEATRO D’OPERA DEL MONDO, il San Cassiano, del 1637 QUI 

L’obiettivo – leggiamo - è quello di riprodurre un teatro barocco pienamente funzionante e specializzato, completo di macchine di scena, scenografie mobili ed effetti speciali, creando a Venezia un centro mondiale per la ricerca, la sperimentazione e la messa in scena di esecuzioni storicamente consapevoli, così da studiare l’opera barocca attraverso la sua rappresentazione e la sua resa sonora nella buca orchestrale. Avete sentito le nostre istituzioni lanciare appelli o cercare fondi per tale realizzazione?

Mentre noi ci pasciamo dei berci osceni e blasfemi sanremesi emessi da cinedi semiafoni, all’estero sanno benissimo che l’opera italiana è lo spettacolo artistico più completo, colto e meraviglioso di tutta la storia umana, che unisce canto, musica, danza, scenografia, poesia, arti applicate e si impose ovunque grazie allo straordinario virtuosismo vocale di scuola precipuamente italiana, nella fattispecie, il Belcanto, “fondato” dal romano Giulio Caccini e portato alla perfezione tecnica nell’800, come avvenne, del resto, per gran parte delle arti maggiori.

Un miracolo straordinario, un’”arte marziale” che consente di amplificare naturalmente la voce umana grazie alla riflessione (e gestione) della voce nelle cavità ossee del cranio, in modo da creare un’onda acustica penetrante, capace di superare la barriera sonora dell’orchestra e di trasmettersi nell’aere compatta, rotonda e cristallina fino alle balconate della galleria, con una ricchezza di armonici capace di mettere subito in vibrazione “simpatica” le corde dell’emozione.

La disciplina si insegna ancor oggi in modo empirico-verbale, anche se una parte di quel sapere si è smarrito: l’”appoggio in maschera”, il “sostegno diaframmatico”, il “passaggio di registro”, l’”oscuramento degli acuti” e, soprattutto, la “libera risonanza” che consente a soprani, tenori, bassi e baritoni di cantare per ore senza stancarsi o logorare l’organo vocale.

Nell’epoca della microfonazione, non sappiamo, però, renderci conto appieno di questo miracolo, per certi aspetti anche “circense”, che, fino alla prima metà del ‘900 raccoglieva, soprattutto nel Nord Italia, vere tifoserie e critici spietati, anche e soprattutto negli strati più popolari.

Un patrimonio che, da immateriale, può diventare materialissimo: l’opera è un asset strategico-culturale italiano tanto quanto il patrimonio storico-artistico, se non di più, vista la sua “trasportabilità”. Dispiacerà, ma lo aveva capito bene il Fascismo, autore di una delle più radicali promozioni della lirica, con la stagione alle Terme di Caracalla, a Roma, e il geniale Carro di Tespi, 4 fantastici teatri mobili smontabili che portavano Traviate, Rigoletti e Balli in Maschera anche nelle cittadine e nei paesi più sperduti a beneficio di centinaia di migliaia di popolani che, altrimenti, non avrebbero mai potuto assistere a un’opera lirica. QUI 

Non sfuggiva, all’epoca, il potenziale morale-educativo dell’opera italiana che è anche, e soprattutto, uno scrigno prezioso di valori eterni ed immutabili, oggi dismessi e forse pericolosi, che potrebbero far rialzare la testa a un popolo soggiogato, colonizzato e ipnotizzato.

Come la tragedia greca, l’opera scolpisce e preserva gli archetipi più puri: amore, gelosia, sacrificio, eroismo, vendetta, patriottismo, che convivono accanto alle maschere - già plautine - dell’opera buffa: il servo furbo, l’innamorato, la bella capricciosa, il Pappus, il vecchio sciocco.

Un patrimonio immateriale che parla dell’uomo nelle sue grandezze e miserie, un dono ricevuto dalla storia da difendere non con l’indolente mollezza dei burocrati, ma con la furibonda reattività degli appassionati cultori. I nemici sono tanti: l’indifferenza mercantesca della televisione; le cacofoniche sperimentazioni atonali della musica contemporanea (pura iprite per il pubblico); la miope, greve ignoranza della politica, (che chiude i teatri perché “con la cultura non si mangia”); l’esitazione di una scuola sempre indietro sulle cose che contano e, soprattutto, il capriccio oltraggioso di certi registi d’opera, appartenenti a note “corporazioni” che, da decenni, scempiano i capolavori di Bellini, Rossini, Verdi, Donizetti, portando in scena, con ripetitivo manierismo, videoproiezioni, trasposizioni, riambientazioni contemporanee, oscenità, simboli fallici e i soliti immancabili nazisti, ormai folletti onnipresenti e quotidiani nelle nostre vite. Ci sarebbe, poi, da aprire tutto un altro discorso sulla “scena dipinta all’italiana”, un altro meraviglioso sapere cinquecentesco da noi esportato ovunque QUI 

Due giovani serpenti, da soffocare in culla, sono il politicamente corretto e la cancel culture, che hanno cominciato a insidiare i finali delle opere (come avvenuto per Carmen, salvata dal “femminicidio”) e a profanare i libretti d’opera, tentando di sbiancare Aida e di mutare Otello in un alfiere del dialogo coi saraceni.

Nulla è ancora deciso: i risultati a dicembre. Attenzione, però, all’invidia dei finti amici europei: possono darcela vinta sui Måneskin, in quanto simpaticamente omo-satanisteggianti, (pertanto in linea col pensiero unico), ma sanno benissimo che, con il canto lirico, li oscuriamo. E non ci renderanno la vita facile.

Dai blog