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La coppa baccellata di 2000 anni fa: i Romani lo riciclavano prima di Greta Thunberg

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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“La fortuna è come il vetro, così come può splendere, così può frangersi”: è un aforisma di Publilio Siro che ben si attaglia al recentissimo ritrovamento archeologico presso il sito dell’accampamento romano di Noviomagus, a Nijmegen, in Olanda.

A vederla, si direbbe una fruttiera del servizio buono della nonna, ma questa elegantissima coppa di vetro blu ha circa 2000 anni, e - per un’incredibile fortuna, appunto - non reca la minima crepa o scheggiatura.

Ne abbiamo parlato con la prof.ssa Emanuela Borgia, docente di Archeologia delle Provincie romane all’università “La Sapienza”: “La coppa blu appena rinvenuta, del I secolo d.C, è del tipo detto “baccellato” per via di quelle striature. Mi sentirei di confermare quanto ventilato dal responsabile dello scavo, Pepijn van de Geer: è probabilmente di importazione italica, dato che abbiamo ritrovato frammenti identici nella Valle del Tevere e in altri contesti nostrani. In quelle zone, sul Reno, fioriranno manifatture vetrarie raffinatissime, ma più verso il II-III secolo d.C.; dai loro forni usciranno incredibili capolavori come i famosi “diatreta”, coppe circondate da una sottilissima rete di vetro, un vero virtuosismo. I rari vetri che vengono trovati intatti, di solito fanno parte di un corredo funerario, ma, stranamente, questa è stata rinvenuta in un complesso residenziale, probabilmente l’alloggio di un alto ufficiale che, come d’uso, viaggiava portandosi dietro tutti gli agi e gli oggetti di lusso come questo, paragonabile, oggi, come valore, a un’elaborata coppa di Murano. E’ possibile che l’ambiente sia rimasto sigillato a causa di un evento traumatico: intorno al 70 d.C., infatti, vi fu la famosa “Rivolta dei Batavi”, repressa duramente dai Romani”.

Chissà quali scene di violenza intravidero quelle marine trasparenze: torme di germani inferociti che aggredivano legionari e centurioni, distruggendo i loro alloggi, ma certo la coppa ci parla anche di un mondo poco conosciuto, soprattutto in Italia, quello delle antiche arti applicate. A causa dell’eredità culturale dell’Idealismo crociano, ancor oggi tendiamo a privilegiare le opere delle arti cosiddette maggiori, a scapito dello straordinario mondo tecnologico dei Romani che, a proposito di vetro, seppero raccogliere, amalgamare e sviluppare le tradizioni più antiche della sua lavorazione, dai Fenici, dagli Egizi e dai Greci. “Basti pensare – spiega l’ing. Flavio Russo, noto archeologo sperimentale - che a Pompei sono state ritrovate lenti di ingrandimento il cui uso è testimoniato dalle finissime incisioni di gemme a sigillo anche di 8 millimetri, impossibili da eseguire ad occhio nudo. Altre lenti, di forma sferica, venivano impiegate per accendere il fuoco, mentre il vetro colato in lastre, il cosiddetto lapis specularis, serviva per gli infissi delle finestre, ovviamente per le domus dei più ricchi”.

Columella racconta che tali lastre ricoprivano anche le serre mobili dell’imperatore Tiberio, il quale si faceva coltivare i cetrioli (di cui era ghiottissimo) in gabbie vetrate poste su ruote che, nei mesi più freddi, di giorno erano esposte al sole e la sera venivano messe al riparo.

I Romani ebbero anche il merito di diffondere e implementare al massimo la tecnica della soffiatura, soprattutto all’interno di uno stampo, che si affermerà dal I secolo d.C. in poi. Il vetro poteva raggiungere così spessori molto sottili e leggeri.

I commerci e le vie di comunicazione garantivano la circolazione di panetti di vetro precolorato, che, come i lingotti di metallo, venivano smerciati in tutte le provincie presso le varie officine.

Chi ritenesse il riciclo del vetro una trovata ecologista contemporanea, si illuderebbe: già ai tempi di Roma antica esisteva la figura dell’”ambulator”, una sorta di raccoglitore che passava per le case raccogliendo i cocci e pagandoli con zolfo grezzo. La consuetudine era così diffusa che oggi i vetri antichi non si trovano facilmente, tanto che la maggioranza proviene da corredi funerari di Pompei e di Ercolano, dove il Vesuvio bloccò il tempo nella cenere vulcanica.

I cocci da riciclo erano ricercati perché fondevano a una temperatura più bassa del vetro grezzo, con un notevole risparmio di combustibile; a partire dall’Età flavia fiorì un vero e proprio commercio del vetro rotto; questo è dimostrato anche dal carico di alcuni relitti, come quello di Grado, del II secolo d.C. E, ci si consenta la battuta, era lo stesso periodo in cui gli antenati di Greta Thunberg cominciavano appena a scrivere.

 

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