"Psicopatologia del radical chic", di Roberto Giacomelli: finalmente un approccio clinico
Che cosa conduce una persona a voler distruggere scientemente la propria Nazione, annientare la propria storia, decostruire la propria famiglia compromettendo il futuro della propria gente? Quale arcana forma paranoide porta a vedere fascisti sotto al letto, omofobi nel comodino, razzisti occhieggianti dalle scatole dei cereali al cacao, cercando conforto in un asterisco alla fine delle parole? Interrogativi che ci affascinano da anni e ai quali arriva una risposta finalmente anche di tipo clinico.
Attendevamo con ansia l’uscita di “Psicopatologia del radical chic”, (ed. Passaggio al bosco) opera dello psicanalista Roberto Giacomelli: un saggio luminoso e scorrevolissimo che spiega le radici della presunta superiorità morale della Sinistra, che permette ai suoi rappresentanti un atteggiamento sprezzante, fino alla violenza, nei confronti degli avversari.
L’intolleranza che si esprime con un’aggressività malata, fatta di insulti, atteggiamenti persecutori e svalutanti è considerata accettabile perché viene da un élite al di sopra di ogni giudizio morale.
Per questo è completamente inutile cercare un’equa reciprocità, quando, ad esempio, viene oltraggiata una donna di destra, ucciso un italiano e nessuno si scandalizza. “Ah, ma allora sono due pesi e due misure!”. Certo, ovvio: l’egemonia culturale degli eredi del marxismo, con i loro ideali traditi per il liberismo selvaggio, è divenuta una caratteristica soffocante del confronto dialettico.
La fortunata espressione “radical chic”, come noto, fu coniata dallo scrittore americano Tom Wolfe (1930-2018) al ritorno da un rinfresco in casa del direttore d’orchestra Leonard Bernstein organizzato per sostenere i rivoluzionari del movimento delle “Pantere Nere”: anarchici, proletari afroamericani, marxisti-leninisti e fautori del potere nero si mischiavano ai privilegiati dell’alta borghesia bianca, tra camerieri in livrea e poco rivoluzionari flûte di champagne. Una situazione comica e grottesca, dove i padroni di casa ospitavano e sostenevano coloro che li consideravano dei “nemici di classe”.
Da diversi anni, ormai, il radicalchicchismo è trasmigrato, come un virus artificiale, dai sontuosi salotti newyorkesi fino all’Europa, democratizzato ad usum elettorale per le classi sociali più modeste e piccolo-borghesi, adattato in versione junior per gli adolescenti gretini che, fin da piccoli, si rimpinzano di valoretti facili-facili sull’ecologia pur continuando a essere famelici super-consumatori.
La principale radice di questo disagio, secondo Giacomelli, è in un senso di colpa, nel trauma non elaborato di aver abiurato agli antichi valori rivoluzionari che sfocia, poi, nel disturbo di personalità narcisistico, istrionico ed antisociale degli intellettuali e sedicenti tali progressisti.
Il monopolio dell’odio, il linguaggio come strumento di manipolazione, la tecnica per fare diventare realtà le bugie, sono l’armamentario dei nostri amici speciali. La tecnica del capro espiatorio è usata per criminalizzare l’avversario politico e costituisce la loro difesa psicologica contro qualsiasi ragionamento logico.
Il senso di colpa per aver dismesso la tuta da metalmeccanico in cambio del golfino di cachemire, o il fazzoletto rosso da partigiano sostituito con la sciarpa arcobaleno, ha devastato la loro psiche, tanto che un vetero-comunistone come Marco Rizzo, comparendo, li orripila come lo spettro di Banqo.
Senza più l’MP40 rubata al soldato tedesco, le loro battaglie oggi sono in tutù e piume di struzzo, si conducono in tv e non in piazza, ma sono molto più cattive e sleali, essendo piene di quell’odio sopito per se stessi che i loro nonni non avevano. Tratto caratteristico, l’ostentazione di sé, il narcisismo di chi vuole farsi notare, il vuoto pneumatico di contenuti effettivi, la mancanza di ancoraggio alla realtà, il cieco, paradossale e interessato asservimento al potere. Malgrado l’abbondanza di questa tangibile mediocrità, abilmente camuffata da una martellante propaganda mediatica, le formazioni progressiste – che spesso escono sonoramente sconfitte dalle tornate elettorali – riescono comunque a governare gli Stati, imponendo, non si sa come, ogni volta, i loro governi tecnici.
Persecuzioni giudiziarie, diffamazione sistematica degli avversari, uso spregiudicato della paura come mezzo coercitivo: sono queste le armi di una sinistra priva di argomenti e fanaticamente attaccata ad una narrazione parallela dell’esistente
Non bisogna sottostare alla loro prevaricazione, scrive Giacomelli, ma ribellarsi a qualsiasi tipo di etichettatura: “fascista”, “omofobo”, “razzista”. Reagire con la massima determinazione, senza paura delle proprie idee, facendo gruppo e utilizzando i social, il web, ormai unica plaga rimasta di libertà.
Ancora per poco, forse.