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Dopo 94 anni, ecco il discorso dimenticato di Cadorna riabilitato e Maresciallo d'Italia

Parole che spiegano il senso della nostra ultima guerra risorgimentale

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Mentre sotto la Porta dell’Inferno di Rodin vortica il sabba mondialista, rubando la scena alla più sacra delle celebrazioni nazionali, romba, come un tuono lontano, la voce dei grandi personaggi che hanno fatto la nostra storia. Vi proponiamo un documento che non si vede da quasi cent’anni: il discorso – riportato dal Corriere della Sera - con cui, dieci anni dopo la Grande Guerra, il generale Luigi Cadorna riceveva il bastone di Maresciallo d’Italia, il massimo grado militare, insieme al suo omologo Armando Diaz. 

Il Principe della Guerra e il Duca della Vittoria, come vennero chiamati all'epoca.

Come scrivevamo, figura largamente incompresa del nostro Risorgimento, questo generale scolpito nel granito delle sue valli piemontesi, si sobbarcò la parte dura - e a volte durissima - del lavoro per farci vincere la Grande Guerra.  Uno stratega studiato ancor oggi nelle accademie militari americane, che è stato infangato dalla propaganda nostrana e da facili vulgate storiografiche fino a farlo passare per un boia, isterico, ottuso, fragile di nervi.

Era un uomo di ben altra pasta e quanto affermiamo è illustrato in modo abbastanza completo: QuiQui  e Qui

Documento plastico della mistificazione, l’omissione continua della seconda parte del suo famoso bollettino di Caporetto. Se nella prima parte, sferzava la pusillanimità di alcuni reparti mal comandati e minati nel morale dai socialisti, nella seconda (sempre censurata dagli storici e dai giornalisti) lodava la fedeltà e la resistenza degli altri. Fu grazie al suo ruggito che il Regio Esercito poté rimettersi in riga, ripiegare in perfetto ordine sulla Linea del Piave che lui stesso aveva fortificato con anni di anticipo e che avrebbe piegato il nemico asburgico. Ma siccome siamo abituati a fermarci solo all’apparenza, a prestar federe alle fole emotive e alle visioni parziali di certa propaganda, il generale che ha vinto per il 70% la guerra europea (secondo una stima dello storico Aldo Mola) viene da noi trattato come una pezza.

Eppure, il 14 giugno 1925, a Padova, quando ancora i cuori delle madri, delle mogli, e i moncherini dei mutilati ancora sanguinavano, a soli dieci anni di distanza dalla fine del massacro europeo, in tanti seppero riconoscere che quella durezza di Cadorna era necessaria, vitale, indispensabile. per gestire un fronte immenso con un esercito impreparato. E quella folla gli tributò – racconta il Corriere – acclamazioni assordanti. La riabilitazione completa dell’ex Comandante supremo fu dovuta – paradossalmente – alle pressioni di un combattente che alla guerra aveva regalato già porzioni importanti del suo corpo, il Grande Mutilato Carlo Delcroix.

Così, dunque, lo introdusse il Ministro di Giustizia Alfredo Rocco, uno dei più importanti giuristi italiani, sintetizzando in poche frasi di bronzo il suo comando: “E’ gloria vostra o maresciallo Cadorna , l’esercito formato nella penuria di tutto, l’offensiva generosa e temeraria contro un nemico già pronto in tutta la sua potenza; la difesa tenace della porta alpina violata, la vendetta nel piano, fulminea, che si chiamò Gorizia, fiore rosso di passione e di sangue; e la lotta furibonda sulla via di Trieste aspettante e l’ascesa tormentosa dell’Alpe Giulia; Monte Santo, San Gabriele, Monte Nero, Altipiano della Bainsizza. Batté poi l’ora grigia della non meritata sventura, ma la ritirata sapiente e l’arresto  meditato sul Piave e il comandamento di resistere o morire è una gloria vostra  Maresciallo. Nessuno, vogliamo gridarlo di fronte al mondo, può contendere questa fronda alla vostra corona!”.

L’anziano generale prese così la parola e pronunciò il suo discorso che vi riportiamo in fondo per intero. Questo passaggio è particolarmente significativo: “…L’azione e i meriti dei singoli saranno discussi e giudicati poi, dai posteri più liberi e sciolti dalle passioni del tempo; ma sin d’ora il vostro atto che segue quello del Governo del Re , consacra anche in fronte all’avvenire lo spirito unico che animò i comandanti, che collegò i loro sforzi e i loro disegni che li guidò nei momenti più gravi e che oggi li unisce in un sentimento che trascende le ambizioni personali di fronte alla maestà della Patria vittoriosa. E in noi, comandanti, esalta sopra tutto il valore unico costante dei soldati. Poiché - e lo sento con fierezza - gli onori fatti a me in quest'ora vanno oltre la mia persona; vanno al combattente italiano di tutte le  battaglie e di tutte le vittorie; vanno ai vivi e ai morti; a quei milioni di silenziosi eroi a cui ho chiesto il sacrificio di ogni cosa più cara; a cui ho detto che bisognava esser pronti a morire per un altissimo scopo, che essi forse non vedevano sempre, ai quali ho dovuto far spargere il sangue, anche quando il successo pareva lontano, l'offensiva  temeraria, e la lotta senza via d'uscita; coi quali ho anche usato a volte parole dure, dettate dalla necessità e non dal cuore; ai quali non ho potuto dare singolarmente il premio che si meritavano, ma che sento oggi uniti a me e compartecipi della giustizia che mi è resa.”

Leggete di seguito il resto del discorso, ascoltate le sue parole, e avrete percezione diretta e personale su quanto sia veritiera la leggenda nera che è stata cucita addosso a questo grande Comandante.

 

Il discorso completo:

 “Altezza Reale, è con animo profondamente commosso dai ricordi della guerra che dai cittadini di questa nobilissima Padova ricevo oggi le insegne della più alta dignità militare offertemi in commemorazione dei miei giorni in cui, dieci anni orsono, ubbidendo al comando di S.M. il Re, io mossi per guidare l’esercito verso l’adempimento di quei voti nazionali   che ci sono stati lasciati in retaggio dalla generazione del Risorgimento.

Le promesse di quelle memorabili giornate della Storia d’Italia non sono state deluse. Il giuramento di ridare alla Patria le sue naturali frontiere e di elevare la nostra dignità morale in un cimento che fu la prova del fuoco di tutti i popoli è stato mantenuto e sciolto a Vittorio Veneto. L’impeto generoso di una nazione levatasi in armi con un sentimento patrio che fondendo tutte le classi, le regioni e le fedi ci lasciò intravdere nell’ora del sacrificio l’ideale di un’Italia concorde, ha spezzato il nostro secolare nemico. Il sangue di cui siamo debitori di ben più che di una conquista materiale di territori non è stato sparso invano. Per questo sento di poter anch’io con tranquilla coscienza accettare oggi i segni di un riconoscimento che va alla fede con cui credetti nelle virtù militari del nostro popolo cercari di preparare in una febbrile vigilia un esercito degno dei destini del mio Paese. Ma mi è grato che qyest’atto di riconoscenza mi sia reso insieme all’altro Comandante supremo delle forze combattenti che riassume nel suo nome (Diaz della Vittoria n.d.r.) come in simbolo imperituro la Vittoria italiana e che nelle onoranze rese nello stesso giorno, con lo stesso animo ad entrambi si riaffermi così quella unità spirituale che lega il primo giorno del nostro intervento al compimento glorioso dell’aspra lotta  e illumina coi bagliori della vittoria i lunghi e logoranti anni del Carso.

La guerra è stata una, la gloria una sola, e nessuno vorrebbe pesarne gelosamente la parte che gli spetta sulle bilance della storia. Mi basta di sentire, di sapere per accettare il vostro omaggio che coi miei compagni d’arme ho fatto tutto ciò che era in mio potere per obbedire al comando della Patria per tener alto l’onore dell’esercito, per non piegare nelle ore buie che in ogni guerra sono fatali, per difendere con inflessibile volontà questo sacro suolo, assumendo responsabilità terribili di fronte al giudizio degli uomini e al giudizio di Dio.

L’azione e i meriti dei singoli saranno discussi e giudicati poi, dai posteri più liberi e sciolti dalle passioni del tempo; ma sin d’ora il vostro atto che segue quello del Governo del Re , consacra anche in fronte all’avvenire lo spirito unico che animò i comandanti, che collegò i loro sforzi e i loro disegni che li guidò nei momenti più gravi e che oggi li unisce in un sentimento che trascende le ambizioni personali di fronte alla maestà della Patria vittoriosa.

“E in noi, comandanti, esalta sopra tutto il valore unico costante dei soldati. Poiché - e lo sento con fierezza - gli onori fatti a me in quest'ora vanno oltre la mia persona; vanno al combattente italiano di tutte le  battaglie e di tutte le vittorie; vanno ai vivi e ai morti; a quei milioni di silenziosi eroi a cui ho chiesto il sacrificio di ogni cosa più cara; a cui ho detto che bisognava esser pronti a morire per un altissimo scopo, che essi forse non vedevano sempre, ai quali ho dovuto far spargere il sangue, anche quando il successo pareva lontano, l'offensiva  temeraria, e la lotta senza via d'uscita; coi quali ho anche usato a volte parole dure, dettate dalla neces\sità e non dal cuore; ai quali non ho potuto dare singolarmente il premio che si meritavano, ma che sento oggi uniti a me e compartecipi della giustizia che mi è resa.”

Ma questa cerimonia mentre ravviva i nostri ricordi nella stessa città che della guerra fu uno dei centri bersagliati ed eroici, che conserva a titolo di gloria le sue ferite, non deve essere un semplice sguardo gettato a un periodo superato, come a cosa lontana, ma anche una promessa fatta all’avvenire. Dieci anni or sono, iniziando la lotta contro il nemico, io potevo a molti, dentro e fuori i nostri confini, sembrare un illuso dal troppo facile ottimismo nelle virtù militari di un’Italia che ancora non aveva fatto le sue grandi prove e che i suoi nemici speravano incapace di affrontarle e vincerle. Eppure, la fede nelle forze antiche e nuove di un popolo come l’italiano era in me così salda e cosciente da farmi affermare che la nazione avrebbe saputo battersi contro eserciti di tradizione e di preparazione secolari per conquistare quella posizione nella storia che solo le grandi guerre consacrano in modo definitivo. Oggi mentre ricevo le insegne di un comando che è premio di quella fede, guardando verso il domani, sento di poter rinnovare con accresciuta fiducia il mio presagio in quei destini della Nazione che spero e credo potranno essere conseguiti per le vie pacifiche del lavoro e della collaborazione con altri popoli. Dalla grande prova di questo decennio, al quale non sono mancate le ombre e le disillusioni, io esco però con la convinzione sicura che il popolo italiano non sarà inferiore alle speranze dei suoi esaltatori e dei suoi martiri. Combattendo si è rivelato a se stesso e ha mostrato le possibilità della sua grandezza nella continuità di una tradizione per cui giunse in un secolo di lotta, dalla servitù a Vittorio Veneto. E sono certo che nulla potrà ormai spezzare quella unità morale che è a base di quella anche territoriale e che fu definitivamente consacrata nel sangue sui campi di battaglia.   

Qualunque possano essere le divisioni amare e gli inevitabili conflitti di idee non è più possibile che gli italiani dimentichino i giorni in cui furono unfuoco solo e un’anima sola, nelle trincee e sotto il fuoco nemico, che si sentano indifferenti o, peggio, ostili gli uni agli altri dopo aver conosciuto il cameratismo e la colleganza di quattro anni di sacrifici in comune. E so che a un appello supremo in nome della Patria, per la difesa dell’onore e della vita nazionale, l’Italia del 24 maggio 1915, potrebbe ribalzare col più ardente spirito, quale si rivelò in quei giorni, rispondendo al comando con un unico grido, dai marescialli ai combattenti di ieri: “W il Re! W l’Italia!”

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