Il Belcanto: orgoglio italiano trascurato e miniera d'oro non sfruttata
Le Giornate mondiali sono generalmente inutili, ma quella di oggi, dedicata alla Voce, offre l’occasione per parlare del più straordinario miracolo prodotto dal corpo umano che, indagato e scoperto dal genio italico – senza retorica - ha prodotto una delle più ricche e meno sfruttate miniere d’oro sulle quali siamo seduti: il Belcanto.
Mentre ovunque trionfa il brutto, l’osceno e il blasfemo, l’antica e sublime arte di utilizzare la voce come uno strumento musicale, nata nel ‘500 a Firenze, con la Camerata de’ Bardi e fiorita appieno nel melodramma otto-novecentesco, è oggi coltivata solo da una ristretta élite di melomani, auto-rinchiusi, ormai, nei ghetti dei canali tv “per appassionati”. Per il resto, la voce lirica fornisce colonne sonore a réclame di pizza e sciroppi per la tosse, quando non viene sfruttata da cantanti pop per discutibili commistioni. Grazie alla latitanza della scuola e della tv di Stato, oggi, in pochi, in Italia conoscono davvero l’Opera che, fino a qualche decennio fa, era ancora un genere veramente popolare, a diffusione endemica, soprattutto in certe regioni del Nord, dove il tifo dei loggionisti assumeva tratti quasi “da stadio”. Eppure, se per qualcosa siamo ancora davvero assolutamente rispettati e onorati nel mondo, è proprio per l’Opera.
Purtroppo, i nostri governanti sono quasi sempre del tutto privi degli strumenti culturali per comprendere le potenzialità economiche di un simile patrimonio. Invece di investire alla grande sulla musica lirica, come si fece ad esempio negli anni '30 (ebbene sì, sotto il brutale Fascismo) con la stagione estiva di Caracalla, il Carro di Tespi, e la promozione capillare e radiofonica di questa musica terapeutica ed euforizzante, oggi gli ormai pochi teatri d'opera chiudono, vengono strangolati da logiche di bilancio da bottegai (mai nessuno che pensi all'indotto) e le opere più celebri vengono stravolte e sconciate con sadismo da registi con ego ipertrofici che ritengono di essere più meritevoli di attenzione di Verdi, Rossini e Donizetti.
Che peccato, davvero, se pensiamo che il Belcanto fu sviluppato proprio in Italia – in un’epoca senza microfoni - da professionisti della voce che dovevano cantare per ore, senza usurare la laringe, proiettando la voce duttile e adamantina fino ai palchi più lontani. Per ottenere questo fenomeno, si scoprì mano a mano che le ossa craniche, in particolare quelle del palato duro e dei seni paranasali, erano in grado di fornire una vera cassa di risonanza (come quella del violino) per amplificare la vibrazione-base delle corde vocali. Un “eco scheletrico” come fu definito dal foniatra Alfred Tomatis, in grado di cambiare l’onda acustica della voce e di farle superare il muro sonoro dell’orchestra. Un miracolo simile al canto degli uccelli che, nonostante le minuscole dimensioni, riescono a proiettare lontano il loro argenteo cinguettìo.
Si scoprì che ogni voce aveva un registro con un’estensione di due ottave, da quello scurissimo, maschile del basso profondo, all’estremo opposto femminile del soprano di coloratura, passando per il baritono, il tenore, il contralto e il mezzosoprano.
Così come avviene per gli strumenti ad arco, il colore e l’estensione di ogni voce deriva in buona parte dallo spessore delle corde vocali, non per niente i bassi sono - generalmente - molto alti, mentre i tenori piuttosto bassini e tarchiati. Con uno studio lungo e tra i più difficili del mondo, i cantanti lirici riescono a controllare la rifrazione del suono nella “maschera facciale” attraverso le sensazioni della voce “appoggiata” in questi risuonatori ossei.
Si genera così una sorta di seconda vista: quando un cantante lirico appare assorto nell’interpretazione, in realtà, la sua concentrazione è soprattutto autoriflessa sulle sensazioni all’interno del suo cranio, grazie alle quali può modulare e gestire suono e parola in tutte le sfumature.
Questa mirabile forma di controllo è molto simile a un esercizio di meditazione, dato che impone la suprema concentrazione di corpo, mente e spirito, istante per istante. E non è un caso che il noto mantra buddista nam-myo-ho-renge-kyo utilizzi sillabe generalmente impiegate nei vocalizzi per “immascherare” la voce. Non è affatto facile; ci vogliono anni di studio e spesso di peregrinazioni fra maestri: la didattica del Belcanto italiano è decaduta a un livello quasi alchemico, ineffabile, ed è stata contaminata dall’ingresso di tecniche vocali spesso straniere e sbagliate, che hanno cercato scorciatoie per ingigantire la voce con forzature ed eccessi muscolari. Ciò che si deve ricercare, invece, è l’aureo equilibrio, “una verità e una realtà vivente”, capace “di armonizzare i contrari”. Così la definiva il tenore Giacomo Lauri Volpi QUI la cui voce, infatti, da vicino non sembrava nulla di particolare, nitida, ma “piccola”, mentre nello spazio del teatro invece, esplodeva acusticamente, enorme, cristallina e omnipervasiva.
Bisogna ascoltare i cantanti lirici nel teatro d’opera, con la consapevolezza dello straordinario miracolo che si sta verificando e della performance quasi “circense” dell’artista che, se cade, non ha la rete elastica. Attenzione però: per paradosso, “stecca solo chi sa cantare”.
Insomma, riappropriarsi del nostro Belcanto è molto più che riscoprire un “genere musicale”: è un percorso iniziatico alla conoscenza della Natura e della Tradizione. (Già mesi fa avevamo lanciato un appello scherzoso ai ragazzi di oggi immersi, purtroppo, in un'offerta musicale che degrada ogni giorno di più a livello estetico, vocale, contenutistico. QUI )
Avevamo anche già scritto dell'effetto che il Belcanto produce in coloro che lo servono in umiltà e passione citando il compleanno del M° Giuseppe Giacomini QUI
In effetti, se vogliamo vederla da un’ottica spirituale, la trasformazione di una voce grezza nell’impostazione belcantista è forse la cosa che più si avvicina, sulla terra, a quello che potrebbe essere la trasfigurazione dell’anima (beata) dopo la morte. L’identità rimane la stessa, ma viene purificata, ampliata, divinizzata.