Cento anni dal "Natale di Sangue": si chiudeva il sogno di Fiume
D'annunzio preso a cannonate si ritirò definitivamente al Vittoriale
Un pugno di patrioti in difesa degli interessi dell’Italia, un governo prono agli accordi internazionali e un presidente americano contrario alle istanze “sovraniste” dei popoli. Finì male, complici il silenzio dei media e l’inerzia della popolazione civile.
Il centenario del “Natale di Sangue” che, a Fiume, chiuse a cannonate il drammatico ed esaltante sogno di d’Annunzio, ricorre oggi, 24 dicembre 2020, con un - appena impercettibile - profumo di attualità.
Non fu incruenta l’operazione voluta dal demoliberale Giolitti, condotta tra il 24 e il 27 dicembre 1920, per porre fine ai sedici mesi dell’occupazione - da parte di un esercito di volontari - della città contesa tra Italia e Jugoslavia.
Un breve passo indietro: una settimana dopo la battaglia di Vittorio Veneto (4 novembre 1918) anche la Germania si era arresa, temendo l’invasione italiana dalla Baviera contemplata dall’armistizio con l’Austria-Ungheria. Con il colpo di grazia italiano agli Imperi centrali (una realtà mai sufficientemente ribadita) finisce la Grande Guerra e si aprono i negoziati. Nel frattempo, Fiume viene presidiata dal Regio Esercito, ma nel luglio ‘19 scoppiano disordini con militari francesi. La commissione internazionale vuole porre la città sotto autorità britannica, ma i 3/5 della popolazione fiumana, di lingua e cultura italiane, si ribellano appellandosi a quello stesso principio di autodeterminazione dei popoli grazie al quale il presidente Wilson aveva trascinato gli Usa nel conflitto. D’Annunzio, sollecitato dagli irredentisti fiumani, occupa la città avvalendosi soprattutto di reduci delle nostre unità di élite, gli Arditi.
Iniziava un’epopea, come scriveva il legionario Eugenio Coselschi, composta da una variegata schiera di “uomini vivi, armati di armi vere e di sentimenti umanissimi”. Simbolo di questo sogno rivoluzionario fu la Carta del Carnaro, la costituzione dello Stato libero di Fiume che conteneva, in un testo suggestivo, tutte le novità e le contraddizioni dell’impresa dal punto di vista etico e istituzionale.
Un brusco risveglio fu, dunque, il controverso Trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920 dal ministro degli esteri Carlo Sforza, che imponeva di risolvere il problema di Fiume: la situazione minava sia gli equilibri politici interni, che la credibilità delle istituzioni verso la comunità internazionale.
L’attacco militare fu programmato per la vigilia di Natale in modo che i giornali, chiusi per ferie, non potessero diffondere la notizia. Il primo assalto fu respinto dai legionari, in notevole inferiorità numerica, ma capaci di resistere per le tattiche militari acquisite in guerra e tradotte in tecniche di guerriglia urbana nei mesi dell’occupazione. Il Regio Esercito lasciò allora il campo alla Marina, che cannoneggiò la città con la corazzata “Andrea Doria”. I colpi squarciarono il palazzo del governatore, dove erano gli uffici di d’Annunzio che, pure colpito da calcinacci, ne uscì miracolosamente illeso. Una rinnovata offensiva da terra con l’artiglieria e la minaccia di un nuovo bombardamento via mare convinsero d’Annunzio ad arrendersi e, previo un accordo con l’Esercito, a lasciare la città. Sul terreno alla fine rimasero 25 morti e 139 feriti nelle truppe regolari e 31 morti e 61 feriti tra gli insorti, di cui molti civili.
“La delusione per il Vate fu fortissima – spiega Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale – tanto da inaridire la sua vena poetica, eccezion fatta per il “Notturno” e la struggente poesia “Qui giacciono i miei cani” (che copiamo di seguito n.d.r.). Si ritirò al Vittoriale che, in 17 anni, trasformerà nel suo “libro di pietre vive”. Non avrebbe mai immaginato che la sua Italia (che, pure continuò ad amare) potesse prenderlo a cannonate. Un’ingratitudine che prosegue ancor oggi, quando, sulla scorta di una vetusta morale piccolo-borghese, ad attaccare il poeta per i suoi debiti e i suoi plurimi amori è la stessa popolazione che fa debiti e intreccia plurimi amori”.
Ma il sangue sparso il giorno della nascita di Cristo non portò bene a chi lo aveva provocato.
“Se Giolitti sperava di aver risolto il problema dell’”infezione” fiumana si sbagliava – scrive lo storico Enrico Serventi Longhi - i rituali comuni di commemorazione dei caduti tenuti da d'Annunzio per i legionari, e dal generale Giuseppe Ferrario per i soldati regolari, volti a riportare unità nell’Esercito, suonavano come rimprovero alle autorità liberali e preparavano le future sedizioni politiche. L’eredità dell’impresa venne contesa da varie correnti di legionari, intenzionate a spendere nel mercato politico italiano il consenso e la simpatia di cui la stessa si era circondata. La polarizzazione iniziale fra legionari squadristi e legionari antifascisti era però destinata a sciogliersi nella sintesi del fascismo mussoliniano”.
L’ispirazione fiumana, dunque, piuttosto che essere demolita dalle cannonate, si propagò, travolgendo definitivamente quel che restava del sistema liberale, oramai malridotto e, si direbbe oggi, reso fragile dall’età e dalle patologie pregresse.
"Qui giacciono i miei cani"
Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.
Gabriele d’Annunzio, ottobre 1935