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Il presepe a Piazza San Pietro: incubo o capolavoro?

Rottura dolorosa con la Tradizione

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Oggi alle 17.00 è stato inaugurato il consueto presepe in piazza San Pietro, accolto da debolissimi applausi. Dimenticatevi, infatti, il viso dolce della Madonna, il tenero, luminoso incarnato del Bambin Gesù, la dolcezza paterna di san Giuseppe e la devota meraviglia dei pastori.

Forse per la prima volta, in mezzo al colonnato del Bernini non è stato allestito un presepe figurativo, classico, bensì un’opera brutalmente postmoderna e neanche troppo recente, dato che risale agli anni 1965-’75.

A molti fedeli appare come un vero incubo, ma secondo la critica sarebbe un capolavoro. Certamente non è “per tutti” e siamo molto lontani da quell’idea di bello assoluto e oggettivo che ha animato per 2000 anni l’arte cristiano-cattolica (a parte gli ultimi decenni).

Sulla pagina Facebook di Vatican News, le foto di anteprima delle sculture sono state accolte da una pioggia di critiche feroci.

La più tenera recita: “Questa bruttezza incarna perfettamente la decadenza di una certa cattolicità in parole ed opere”.

Un altro utente, mestamente commenta: “Fa piangere... Però è in linea col ridicolo che sta serpeggiando un po' ovunque... Tristezza infinita”.

E ancora: “Orribile..Perché produci ceramica, non significa creare bruttezza moderna... Il senso del bello, del gusto, l'armonia delle forme?!?! Un presepe deve far sognare, ti deve immergere nella contemplazione del Mistero! Qua vien voglia di volgere altrove lo sguardo”.

L’opera venne realizzata in ceramica di Castelli da alunni e docenti dell’Istituto d’arte “F. A. Grue”, attuale liceo artistico statale per il design (si riconosce la mano incerta di ragazzi ancora non definitivamente formati). Fu poi esposta a Roma, a Gerusalemme e a Tel Aviv.

Nella sua interezza è composta da 54 grandi statue, tra cui figurano anche un islamico, un rabbino ebreo, un astronauta e persino un boia (in riferimento alla pena di morte) ma solo alcune di esse sono state esposte.

In effetti, ancora non sappiamo come rimarranno i più piccoli nel vedere il Bambin Gesù “avvitabile”, l’angelo con le “alette di raffreddamento”, il guerriero cornuto (sapientemente oscurato dalle telecamere vaticane durante la diretta), le atticciate e villose figure animalesche, le barbe assiro-babilonesi dei Magi, il cosmonauta alla “Alien” e le altre figure totemiche più simili ad arcaiche matrioske che non a personaggi di un presepe.

Nessun elemento paesaggistico: niente grotta, né alberi, ruscelli o similia. Solo i Moloch piantati sulla moquette rossa, sotto un traliccio di vetro e acciaio a protezione dalla pioggia, con un inquietante neon zigzagato sullo sfondo che vorrebbe suggerire il profilo di un monte, ma che pare più un fulmine corrusco.

In questa scelta si riconoscono tutti i temi del pontificato di Bergoglio: innanzitutto, il pesante modernismo e la rottura drastica con la Tradizione. Nonostante i rimandi al linguaggio ancestrale abruzzese, “del territorio” - come si ripete in modo presuntamente rassicurante, alla Farinetti - in questo presepe non c’è niente del candore, della bontà di cuore, del cattolicesimo profondissimo della terra d’Abruzzo, regione stracolma di splendidi esempi di arte sacra. Non c’è nemmeno nulla di riconoscibile come italiano, europeo od occidentale.

Il “territorio” filtra semmai nelle eredità stilistiche di mascheroni degli antichi e feroci Sanniti, progenitori degli abruzzesi, che avevano una religione panteista, animista, feticista, magica: il loro mondo era popolato di spiriti misteriosi e temibili con cui era necessario instaurare buone relazioni. Un po’ come per la Pachamama, dea della fertilità andina molto di moda, che richiedeva sacrifici animali per donare ricche messi.

I dichiarati rimandi alla scultura greca, egizia, sumerica dei personaggi fanno pensare al metodo storico-critico liberale di interpretazione della Scrittura. Questo approccio ai sacri testi, che prese il sopravvento dopo il Concilio Vaticano II, ha infatti la tendenza a smitizzare tutto ciò che è soprannaturale nella fede cattolica: i dogmi, i miracoli e gli interventi divini vengono assimilati ai residui di culti pagani preesistenti, quasi sempre mesopotamici.

I personaggi di altre fedi, come l’islamico e l’ebreo presenti nella collezione, ma non esposti, rievocano il sincretismo e l’ossessivo dialogo interreligioso.

Il boia si riferiva al dibattito dell’epoca sulla pena di morte che Bergoglio ha recentemente fatto cancellare dal Catechismo, pur trascurando le situazioni straordinarie del tempo di guerra e delle carceri insicure.

L’anno di nascita del presepe monumentale di Castelli è, poi, il 1965, lo stesso della conclusione del  Concilio Vaticano II dopo il quale il modernismo - già scomunicato da San Pio X - prese piede grazie al teologo gesuita Karl Rahner.

La scelta di questa opera sembra, quindi, un chiaro omaggio a quella tappa della storia della Chiesa che oggi viene messa sotto accusa da più parti e che, secondo Paolo VI, aveva avuto luogo in anni in cui era stata aperta la porta al “fumo di Satana”, da molti individuato come la massoneria ecclesiastica.

 

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