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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Da quando si è scoperto che il tesoriere della Margherita aveva l'abitudine di fregarsi i soldi del partito, altre strane storie di quattrini imboscati stanno venendo a galla. Una di queste è raccontata da Panorama nel numero da domani in edicola. Di mezzo non c'è il movimento che ha dato vita al Pd, ma quello radicale, il cui cassiere con il denaro di Pannella e compagni si sarebbe dato alle spese pazze. Alberghi, cene, perfino soggiorni in centri relax. La dolce vita sarebbe già stata accertata dalla magistratura, la quale avrebbe condannato l'allegro contabile a dieci mesi di carcere per appropriazione indebita aggravata e continuata. In tutto il tesoriere manolesta si sarebbe messo in tasca 230 mila euro, che adesso i dirigenti della Rosa nel pugno reclamano. Ma a far discutere non sono solo i fondi soffiati a Margherita e Partito radicale. C'è un'altra brutta storia e a raccontarla è stato ieri il Fatto Quotidiano. Una faccenda di ammanchi e molti milioni con di mezzo ciò che resta di Alleanza nazionale, associazione scioltasi già nel 2009 dentro il Pdl, ma formalmente ancora in vita. Proprio come è capitato con il partito di Rutelli e soci. È  noto che An aveva un bel patrimonio, ereditato dal vecchio Movimento sociale, e quando fu deciso il matrimonio con  Forza Italia si stabilì che i soldi finissero in una fondazione, da istituirsi prima della fine del 2011. E in effetti, rispettando gli impegni presi con l'assemblea del partito, la società è stata istituita sul filo di lana un mese prima del termine dell'anno scorso. Peccato che parte del denaro contato  al momento della fusione col Popolo della libertà manchi all'appello. In tutto fanno 25 milioni e 920 mila euro che, secondo quanto lascia capire il giornale di Travaglio e Padellaro, qualcuno si sarebbe messo in tasca. Chi? Il sospetto naturalmente cade sui terribili berluscones, ovvero su colonnelli e caporali di An che sono rimasti nel Pdl, rifiutandosi si seguire Fini in Futuro e Libertà. Sospetto sostenuto  dal fatto che a denunciare tutta la questione sono alcune delle persone più vicine al presidente della Camera, tra le quali la sua segretaria personale Rita Marino. Oddio, anche uomini di legge e ordine come gli ex di An, gente che neanche all'epoca di Tangentopoli è finita nei guai, adesso si sono messi a fare i furbi con il patrimonio del partito? Possibile che abbiano preso il vizietto del loro ex capo, il quale si fece soffiare dal cognato un appartamento a Montecarlo? Domande legittime, anche perché, pur essendo i dirigenti di An molto stimati, di questi tempi nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco per l'altro. Dunque abbiamo provato a girare i quesiti a Franco Mugnai, il senatore del Pdl che nel settembre di due anni fa fu nominato presidente del consiglio di gestione di Alleanza nazionale. Mugnai fino ad allora non si era mai occupato dei conti del partito, ma, essendo avvocato, solo di giustizia. Dopo lo strappo di Fini e dei suoi seguaci fu però messo a guardia della cassaforte per conto dei berluscones e la sua versione ribalta le accuse sugli accusatori. Confermando uscite per quasi 26 milioni di euro dal 2009 ad oggi, il senatore spiega che di sua pertinenza sono «solo» 4 milioni e ottocento mila euro, mentre il resto sarebbe stato speso prima del suo arrivo, cioè quando An e il suo patrimonio erano nelle mani dei finiani, tra i quali molti di quelli che denunciano la mala gestione dei beni del partito. Ventuno milioni che sarebbero stati regolarmente inseriti a bilancio e per di più votati dai signori che oggi si lamentano. Tutto regolare, tutto documentato, nessuna ruberia, spiega Mugnai. Il quale però si leva qualche sassolino dalle scarpe nei confronti dell'ispiratore della denuncia in Procura, vale a dire il presidente della Camera. A suo dire, tra le spese che si è trovato a saldare anche il conto della Bmw 740 che Fini, pur non essendo più leader del partito, aveva in uso. Autovettura di lusso che il nuovo tesoriere si è fatto restituire e ha messo in vendita.  Non solo. Sul bilancio gravavano anche 5 mila euro lordi mensili che il partito pagava a titolo di consulenza alla signora Marino, cioè alla segretaria privata dell'inquilino di Montecitorio. Una signora tanto assidua con la terza carica dello Stato da lavorare proprio alla Camera, luogo da cui telefonò a Piscicelli - l'imprenditore della cricca che rideva la notte del terremoto in Abruzzo - per parlare di appalti e fondi da sbloccare. Insomma, a parte queste spesucce del clan Fini, secondo Mugnai non ci sarebbe nulla da segnalare. Solo affitti  da saldare, dipendenti da liquidare, attività politica da sostenere: comprese le perdite del giornale di partito da ripianare. E allora perché tutta questa polemica? In attesa che la magistratura si pronunci, Mugnai liquida tutto come una faida politica. Il tentativo degli ex, cacciati dalla porta dopo lo strappo, di rientrare dalla finestra. In pratica, una lite sui soldi: rimasti senza la cassa e con un partito che nel frattempo si è ristretto, gli uomini (e le donne) del presidente della Camera starebbero cercando di metter le mani sul patrimonio. La tesi è interessante perché induce a due riflessioni. La prima, che attorno ai partiti ci sono sempre troppi soldi ed è ora di darci un taglio. La seconda, che dietro ai nobili motivi e ai paladini della legalità a volte c'è qualcuno che ci vuol far la cresta.    di Maurizio Belpietro [email protected]  

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