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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Ho provato a spiegare a mio cognato, piccolo imprenditore svizzero, come funziona l'articolo 18. Man mano che illustravo il sistema, il quale rende più indissolubile di un matrimonio il vincolo tra azienda e dipendente, vedevo dipingersi sul suo viso lo stupore. Analoga sorpresa l'ho colta negli occhi di mia nipote, commessa in un grande magazzino nei dintorni di Zurigo, e pure in quelli del marito, caporeparto in una media azienda. L'altro nipote, che lavora in un'impresa di trasporti, scuoteva la testa. Tutti insieme non si capacitavano di come si possa far funzionare una fabbrica se chi ci lavora fa il bello e il cattivo tempo. «Da noi uno così lo mandano a casa», è stato il commento finale. Da noi no. Se uno non ha voglia di lavorare ha mille modi per farla franca. Il primo è fingersi un po' scemo, il secondo è darsi malato, il terzo è fregarsene del tutto, dato che nessuno si azzarderà mai a metterlo alla porta, altrimenti il giudice lo farebbe immediatamente rientrare. I sindacati dicono che l'articolo 18 è un falso problema, perché già oggi le imprese possono licenziare. Certo, ma solo se hanno meno di quindici dipendenti e, nel caso ne abbiano di più, soltanto quando siano in crisi. Qualora non siano sull'orlo della chiusura e, sciaguratamente, abbiano operai e impiegati sopra il livello richiesto per essere considerate  piccole aziende, di liberarsi del dipendente non c'è verso. Forse ricorrendo a un miracolo, ma se non si è credenti niente da fare: tocca rassegnarsi.  Oppure bisogna pagare, ma non è detto che il lavoratore accetti: l'offerta deve essere congrua, altrimenti c'è il rischio che rifiuti. Come detto, è più facile e conveniente separarsi dal coniuge. Recentemente vari giornali, compreso il nostro, hanno provato a raccontare le storie più incredibili  riguardanti l'impossibilità di licenziare.  Tra queste anche quella di una dipendente sorpresa a danneggiare i locali dell'azienda in cui lavorava: dopo otto anni di dispute giuridiche, ancora non è stata messa la parola fine e sul capo della società pende la spada di Damocle del reintegro. Si può far rigar dritto un'impresa se non si è padroni neppure di mandare a casa una signora più volte responsabile di atti di vandalismo? Si può accettare che questa riprenda il suo posto con la scusa di un raptus che qualche volta la spinge a spaccare tutto? Oltre agli evidenti disagi di dover tenere sotto controllo un personaggio simile, c'è un altro problema.    Quanto costa in termini di mancata crescita e di competitività questo vincolo? Difficile a dirsi: di statistiche non ce ne sono. A dar retta a gente che se ne intende, tipo il professor Pietro Ichino che dell'argomento ha fatto una battaglia perfino contro il suo partito, il Pd,  molto. Sentendosi inamovibili anche se battono la fiacca, certi lavoratori riescono a far calare la produzione anche del venti per cento, arrivando a gravare sull'azienda più di altre voci. E quanto incide l'articolo 18 sulla decisione di non assumere a tempo indeterminato, preferendo contratti a termine, come ad esempio quelli a progetto? A sentire Confindustria poco o nulla, ma si capisce che non dice il vero e preferisce tenere la pace sociale con il sindacato. In privato però non c'è imprenditore che non si lamenti e faccia capire di essersi trovato lui stesso alle prese con l'impossibilità di mandare a casa gli scansafatiche. Certo, l'articolo 18 non è l'unica palla al piede che impedisce alle aziende di correre. Oltre al vincolo indissolubile dell'assunzione, ci sono la burocrazia, che fa perdere alle imprese una montagna di ore, e i problemi nel reperire i finanziamenti necessari a far proseguire l'attività. Ma tra tutte le zavorre che gravano su chi fa l'industriale, diciamo che l'impossibilità di liberarsi dei fannulloni è una delle più fastidiose. Non credo che tagliando questo nodo sarebbero risolti i guai e le fabbriche funzionerebbero come orologi, però anche la cancellazione dell'articolo 18 potrebbe contribuire, facendo sembrare il nostro Paese un po' più eguale agli altri. Anni fa, per avere la flessibilità sul lavoro e meno rogne con la pubblica amministrazione, gli imprenditori trasferivano armi e bagagli in Romania e negli Stati dell'Est. Oggi pur di non avere grane con gli ispettori del lavoro, con quelli del Fisco e tutti gli altri che bussano alla loro porta, sono disposti a emigrare in Svizzera, sfidando perfino un po' di noia. Per metterci in pari con il resto del mondo, cominciamo dunque a far cadere il divieto di licenziare. Rispetto alla vicina Confederazione ci mancheranno ancora il cucù e la cioccolata, ma almeno ci saremo messi sulla buona strada per diventare un Paese normale. di Maurizio Belpietro [email protected]  

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