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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Il nostro è un Paese bizzarro. Ogni tanto si innamora di una parola e le attribuisce un significato determinante per la sopravvivenza del Paese stesso. È successo con lo spread, termine ignorato dalla maggioranza degli italiani fino a pochi mesi fa. Senza che se ne capisse la ragione, il differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi all'improvviso è diventato vitale: «Se non scende sotto quota 500 finiremo in bancarotta» era il commento più in voga. Con questa motivazione è stato licenziato Berlusconi e lo si è sostituito con Monti. Con uguale giustificazione è stata decisa in fretta e furia una stangata da 20 miliardi che ha tramortito l'economia. Passata la moda, nessuno ora si preoccupa più dello spread e dei suoi costi. L'attenzione ora è concentrata su un'altra parola chiave: liberalizzazioni. L'abolizione degli ostacoli che impediscono la concessione di nuove licenze di taxi, l'apertura di nuove farmacie e nuovi concorsi per notai, al pari dello spread pare essere diventata risolutiva nel processo di rilancio della crescita. Da giorni si dibatte dunque se siano troppe  o troppo poche le auto di servizio in circolazione nella Capitale, se gli avvocati si possano sostituire ai notai al momento del rogito e quale aumento del Pil ci possa essere incrementando le farmacie. Che nei settori citati ci siano alcune incrostazioni e scarseggi la concorrenza è fuor di dubbio. Ognuna delle categorie interessate (non ci sono solo tassisti, farmacisti e notai) tende di solito a difendere i propri interessi  a scapito di quelli generali. E appena qualcuno ventila modifiche che introducano un po' di libero mercato c'è un'alzata di scudi che le impedisce. Ciò detto, non vorrei però che con le liberalizzazioni si stesse prendendo lo stesso abbaglio avuto con lo spread e si attribuisse al provvedimento la stessa vitale importanza. Io non so quali saranno i termini del decreto cheil governo si appresta a varare. Ma se il contenuto delle misure è quello che da giorni circola sui giornali, cioè riguarda le sole categorie sopracitate, ho il timore che finirà per non risolvere un bel niente. Mi spiego: non sono contro interventi che rendano più dinamici e più efficienti i servizi di trasporto privato e le farmacie. Ma non credo per nulla che - se limitate a queste - le liberalizzazioni rilanceranno l'economia. Non è pensabile infatti che qualche migliaio di auto pubbliche in più o qualche centinaio di punti vendita di farmaci di fascia C possano far decollare la crescita. Al massimo si otterrà di far guadagnare un po' di meno i farmacisti e ridurre il reddito dei tassisti (a proposito: ma davvero i conducenti guadagnano solo 14.000 euro lordi l'anno? Fosse vero bisognerebbe segnalarli ai servizi sociali per l'assistenza), ma non credo che si otterrà un incremento del Prodotto interno lordo. Insomma, intendo dire che se si vuole davvero ottenere qualche risultato sul fronte dello sviluppo non penso si debba partire dal basso. La crescita non viaggia in auto pubblica, ma su un altro genere di mezzi di trasporto. Quanto inciderebbe ad esempio sui portafogli degli italiani liberalizzare il trasporto pubblico, cioè affidare ad un'asta cui partecipano anche i privati ciò che ora è di esclusiva competenza delle municipalizzate? Quanto farebbe guadagnare la privatizzazione di molti servizi che oggi sono affidati allo Stato? Non essendo più pubbliche, le società incaricate della fornitura non potrebbero più bussare a quattrini così come fanno oggi le aziende comunali, regionali e nazionali e il contribuente non sarebbe costretto a pagare, potendo spendere quei soldi nei consumi. Una recente ricerca dell'Università Bocconi, la stessa da cui proviene il premier, sostiene che le liberalizzazioni potrebbero far crescere gli acquisti del 2,5 per cento, con un effetto benefico sul Pil pari all'1,4. L'ufficio studi della Banca d'Italia è più cauto e parla di un aumento del Prodotto interno lordo pari all'1 per cento. A seconda di chi si ascolta, lo sviluppo genererebbe una crescita fra i 16 e i 22 miliardi di euro, non bruscolini. Ma, perché l'operazione funzioni, non basta una riforma annacquata, con poche categorie nel mirino e i criteri di intervento delegati all'ennesima authority, come quella che pare intenzionato a varare il governo.  In questo modo alle incrostazioni di mercato si fa il solletico. Se si vuole davvero far crescere l'economia bisogna semplificare. La vera liberalizzazione è quella che riguarda la pubblica amministrazione e la sua invadenza. Scrive il Sole 24Ore: «Primo fra tutti bisogna sciogliere il groviglio normativo che riguarda il regime delle autorizzazioni: avviare un'impresa, chiedere una Dia, istruire una Scia: Le regole sono tante, troppe e ridondanti». La prima liberalizzazione da fare, quella che darebbe una forte spinta alla crescita, è dunque dello Stato. I suoi vincoli sono diventati insopportabili. Monti ci liberi di quelli, non dei farmacisti, e vedrà che l'Italia tornerà a correre.    di Maurizio Belpietro

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