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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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C'è proprio bisogno di  una legge che favorisca i licenziamenti in un momento in cui per rilanciare l'economia servirebbero le assunzioni? La domanda me l'ha rivolta un signore sulla quarantina in un ristorante. Ogni riferimento al temuto provvedimento che il governo sta preparando era ovviamente intenzionale. La riforma del mercato del lavoro in discussione a Palazzo Chigi potrebbe mettere mano anche all'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ossia al comma che disciplina la risoluzione del rapporto di lavoro, rendendola di fatto impossibile se non per colpa grave o crisi aziendale nelle imprese con più di 15 dipendenti. Non ho la pretesa di sostituirmi all'ufficio stampa del ministro Fornero  (la quale, per altro, dopo aver introdotto l'argomento, si è subito affrettata a farlo uscire dal dibattito politico per tranquillizzare il sindacato). La responsabile del Welfare, essendo docente di Economia politica, ne sa di sicuro più di me. Tuttavia, pur non essendo uno studioso della materia, provo a rispondere utilizzando l'esperienza accumulata negli ultimi vent'anni alla guida di quotidiani e settimanali. I giornali sono piccole o medie aziende e hanno gli stessi problemi di quelle che operano in altri settori, con l'aggravante però che, pur essendo equiparati a professionisti, i giornalisti sono tutelati più dei metalmeccanici. Muoverne  uno è peggio che spostare un grattacielo di trenta piani; liberarsene è praticamente impossibile. Anni fa mi capitò un collega che trascorreva il proprio tempo al telefono con la fidanzata e appena mi distraevo usciva per raggiungerla. Dopo un po' e dopo molti richiami, mi decisi a trasferirlo da una redazione a un'altra, in modo che gli fosse praticamente impossibile la fuga. Risultato: passati un paio di giorni, mi fece recapitare un certificato medico redatto dal fratello e lo rividi solo alcuni mesi più tardi. Stessa storia con una collega cui avevo chiesto di cambiare orario: siccome quello nuovo non le garbava, presentò una prescrizione in cui era stabilito che dovesse rincasare presto per dar da mangiare al figlio: il piccolo rifiutava il pranzo. Un'altra ha “minacciato” la maternità:  se mi sposti in un altro settore ti presento un certificato medico per gravidanza a rischio, nonostante stia benone. Detto, fatto. E una volta tornata, dopo aver partorito, si è messa di nuovo in malattia. Nel corso degli anni mi sono toccati pure colleghi che, non avendo ricevuto la promozione cui ambivano e indispettiti dal fatto che a loro fosse stato preferito qualcun altro, incrociarono le braccia, mettendo i bastoni fra le ruote anche a chi invece avrebbe voluto darsi da fare, ritardando il lavoro. Ho avuto pure un cronista che pur essendo stato inviato a svolgere un servizio è riuscito ad andare da tutt'altra parte, scrivendo un articolo sulla località in cui non era stato, ma consegnando una ricca nota spese con scontrini che attestavano il viaggio. Un poligrafico invece arrivò al punto di sputare in faccia al capo che lo aveva rimproverato, il quale fu costretto a tenerselo grazie a una sentenza del giudice che giustificava la reazione del lavoratore. L'elenco potrebbe continuare, ma più o meno le storie sono queste e non sono molto diverse da quelle che sento raccontare da altri direttori o da imprenditori che conosco. Sentendosi intoccabili, ci sono lavoratori che in azienda fanno il bello e il cattivo tempo. Come spiega Pietro Ichino nel suo ultimo libro, protetti dall'articolo 18 si sono fatti l'idea di essere inamovibili, sicuri che il posto di lavoro sia di loro proprietà. Di licenziarli non c'è verso, anche se in certi casi vi sarebbero gli estremi. Scottate da una giurisprudenza tutta a favore del lavoratore, che ha portato al reintegro e al pagamento di penali salatissime, le imprese non se la sentono di avviare la pratica. Ma quanti sono i dipendenti assenteisti o gravemente insubordinati e qual è il costo dell'impossibilità di licenziarli? Ichino, che oltre a essere senatore del Pd è uno degli esperti tra i più noti in materia di lavoro, sulla base di alcuni studi empirici sostiene che la percentuale di lavoratori che si comporta così oscilla tra il 5 e il 20 per cento della forza lavoro, con una riduzione del rendimento fra un quarto e un terzo del totale. Un costo che non grava solo sulle spalle degli imprenditori, ma anche su quelle degli altri lavoratori, perché riduce la produttività complessiva  e, di riflesso, l'entità del monte salari aziendale. Oltre alla caduta del rendimento, la difesa dei nullafacenti generata da un sistema di tutele che andava bene negli anni Sessanta ma non ora, produce anche un altro effetto, ossia il blocco delle assunzioni. Non soltanto perché il posto occupato da chi marca visita potrebbe essere preso da un giovane. Ma anche perché per questo problema le imprese preferiscono assumere utilizzando forme temporanee di lavoro, in modo da non avere le mani legate se il dipendente perde interesse per ciò per cui è pagato. Abolire l'articolo 18 dunque è un modo per far ripartire l'economia? Io credo di sì. I furbi sarebbero costretti a rimboccarsi le maniche e le aziende non avrebbero più la convinzione che un'assunzione è più indissolubile di un matrimonio. Ai giovani converrebbe, a chi ha voglia di lavorare anche. I soli a rimetterci sarebbero gli scansafatiche. E naturalmente il sindacato, il quale perderebbe parte del proprio potere. Si tratta di decidere: o il lavoro o la Camusso. di Maurizio Belpietro

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