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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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È passato più di un mese da quando Mario Monti è stato nominato senatore a vita e manca poco al trigesimo della nascita del governo di tecnici. In questi trenta giorni sono accadute molte cose, tra tutte la dichiarazione di una specie di stato d'emergenza che ha prodotto una stangata mai vista prima d'ora, quasi tutta a carico del ceto medio e dei lavoratori dipendenti. Gli editorialisti di alcuni importanti giornali di quanto è accaduto sembrano però essersene accorti soltanto lunedì. Almeno a giudicare dalle prime pagine del Corriere della Sera e di Repubblica. Sul principale quotidiano italiano, sotto il bizzarro titolo “Stato d'eccezione ma non se ne parla”, si poteva leggere un fondo di Ernesto Galli della Loggia, in cui erano messi in luce alcuni dubbi sulla procedura che ha portato al varo del nuovo esecutivo. Per il professore «in un paese democratico non può esserci posto per modifiche della Carta costituzionale attraverso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima». Cos'è successo? Che per la prima volta, almeno per lui, il commentatore di via Solferino ha riflettuto sui modi in cui si è giunti alla nomina di Monti e sulle possibili conseguenze  di quelle scelte nel prossimo futuro. Saltando la prassi seguita per sessant'anni, il capo dello Stato ha svolto un ruolo di eccezione, scegliendo senza ascoltare né partiti né Parlamento a chi affidare il Paese. Non lo si dice, ma si sa: Napolitano è anche intervenuto per convincere i riottosi poco intenzionati a votare il preside della Bocconi e ha messo bocca con determinazione nella formazione della squadra di ministri e sottosegretari. La gravità della crisi ha indotto a misure fuori dall'ordinario, ma, trascorse alcune settimane, c'è chi teme che le decisioni dettate dall'emergenza possano diventare la regola, trasformando la nostra democrazia parlamentare in una democrazia istituzionale. Ammesso e non concesso che una Repubblica dove le decisioni sono prese da un'istituzione non eletta dal popolo sia da considerarsi una democrazia. Analoga preoccupazione veniva espressa dalla gazzetta ufficiale della sinistra. Su Repubblica, pur testimoniando la correttezza dell'operato del capo dello Stato e liquidando con sufficienza chi come noi ha parlato di un colpetto di Stato, Gustavo Zagrebelsky,  ex presidente della Corte costituzionale oltre che sfegatato critico di Berlusconi, si chiedeva se la scomparsa dei partiti e del loro peso in Parlamento non rappresenti un rischio per il futuro. «Ma quando tutto questo sarà finito», cioè quando i professori se ne andranno a casa, «che cosa sarà della politica e delle istituzioni?».  Insomma, nella stessa giornata ed entrambi in prima pagina, i giornaloni che più hanno contribuito alla formazione di un governo tecnico in luogo di quello regolarmente eletto dai cittadini, si interrogavano sugli esiti dell'ardita operazione che ha fatto fuori Berlusconi. E per la prima volta si ponevano il problema di che cosa accadrà quando Monti e compagni avranno terminato il loro lavoro. Tralasciamo di notare che noi questa domanda ce la eravamo posti sin dal primo giorno, e dunque appare un po' in ritardo la presa di coscienza a trenta giorni dalla nomina di un nuovo presidente del Consiglio. Ci limitiamo a chiederci perché i belli addormentati della stampa italiana si siano accorti solo ora che Napolitano si sia comportato più o meno come un «re nell'ordinamento monarchico».  Perché Galli della Loggia si preoccupa adesso e non un mese fa delle pericolose interpretazioni della nostra Carta costitutiva? E come mai un pasdaran della Costituzione come Zagrebelsky si dà pena con trenta giorni di ritardo per l'oscuramento del Parlamento e dei partiti? Una risposta precisa non l'abbiamo. Ci colpisce però che i timori di Galli della Loggia e Zagrebelsky coincidano con le prime difficoltà del governo Monti. Quello che doveva essere un supergabinetto di esperti in grado di mettere le cose a posto in quattro e quattr'otto, più passa il tempo e più si impantana nella melma politica. I tagli alla casta che dovevano essere fatti per decreto non ci saranno. L'abolizione delle Province è rimandata a data da destinarsi. Delle liberalizzazioni si è persa traccia e perfino la riforma delle pensioni subisce correzioni. L'esecutivo in loden, quello tanto sobrio da non parlare neanche con l'usciere della tv, ora straparla e addirittura minaccia prelievi straordinari a destra e a manca. E il grande cambiamento promesso dai professori per ora si riduce alle tasse sulla benzina e alla stangata sulla casa e a un'altra valanga di balzelli che colpiscono solo i contribuenti onesti,  lasciando tranquilli gli evasori. Insomma, nell'ora in cui il governo vacilla e qualcuno sospetta che non arrivi, se non a Natale, a Pasqua, non vorremmo che i padrini di Monti dopo aver tirato il sasso si preparino a nascondere la mano.    di Maurizio Belpietro

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