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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Non so chi abbia ragione. Se il Corriere della Sera a parlare di un'evasione aumentata di cinque volte in trent'anni o Dagospia che corregge il giornale di via Solferino moltiplicando per venti i redditi sottratti al fisco. A naso, direi che il calcolo più azzeccato è quello del noto sito di gossip: 28mila miliardi di lire del 1981 in euro fanno meno di 14 miliardi. Dunque, se oggi si imboscano 275 miliardi, vuol dire che l'aumento è stato del 19,6 per cento.  Mica male come risultato. Soprattutto se si tiene conto che in tutti questi anni si sono succeduti 23 governi, nessuno dei quali ha mancato di annunciare una lotta senza quartiere agli evasori.  Come ricorda il cronista del quotidiano milanese, Sergio Rizzo, in tre decenni lo Stato ha usato con una mano il pugno di ferro, promettendo gli arresti a chi non avesse pagato le imposte; mentre sull'altra ha infilato il guanto di velluto, offrendo ogni genere di condono ai cittadini infedeli che non avessero versato i tributi. Risultato? Le cifre parlano da sole: l'evasione è aumentata. Più o meno con la stessa curva delle tasse. Più è salita la pressione del fisco, con balzelli vessatori come l'Irap e l'Ici, e più gli italiani hanno trovato il modo per sfuggire all'obbligo di versarli. Il Corriere scrive che l'evasione rasenta i 300 miliardi. L'Agenzia delle entrate, forse per dimostrare di aver fatto qualcosa di buono, dice che in realtà non si va oltre 130 miliardi. Ammettiamo che abbia ragione il giornale. Vorrebbe dire che, se quelle tasse fossero pagate, il nostro debito pubblico si ridurrebbe di quasi un sesto e il nostro rapporto debito-prodotto interno lordo scenderebbe vicino a quota cento, una misura più che appropriata. Ma se fosse vero quel che dice Rizzo, significherebbe anche un'altra cosa. E cioè che trent'anni di lotta agli evasori sono stati un fallimento. Alzare le tasse, minacciare le manette, promettere delle sanatorie per chi il fisco lo aveva fatto fesso, alla fine non è servito a nulla, se non a far crescere l'economia in nero e il numero di coloro che si fanno beffe degli esattori. La sconfitta può darsi che sorprenda i meno esperti, ma credo che non lascerà a bocca aperta chi mastica quotidianamente questi argomenti. Bastano poche letture per sapere che più si alza la pressione fiscale e più diventa forte la spinta a sottrarsi al prelievo. Non è una novità che una sorta di istinto di sopravvivenza induca chi se lo può permettere a non pagare lo Stato, soprattutto se la misura richiesta non è ritenuta equa, ma al contrario la si vive come una sorta di rapina. Più tasse uguale più evasione. Non si tratta di una formula matematica, ma poco ci manca. E stupisce che fior di professori non ne abbiano tenuto conto quando hanno deciso la manovra per riequilibrare i conti italiani. L'Unione europea non ce lo chiedeva. Neppure la Bce era favorevole a un aumento delle tasse. Entrambi gli organismi pretendevano riforme. E invece Monti e compagni ci hanno dato una stangata, mentre per la riduzione delle spese bisognerà avere pazienza. Così come per i tagli alla Casta. Giampaolo Pansa qui sotto sostiene che l'inasprimento delle norme per dar la caccia agli evasori non lo spaventa. Lo Stato di polizia fiscale gli sembra una misura necessaria, così come inevitabile gli pare che l'Agenzia delle entrate si trasformi in una specie di Grande Fratello, che tutto origlia e tutto controlla. Ogni nostra spesa, ogni nostro movimento sul conto corrente verrà registrato, oltre che dalla banca, anche dal Fisco, il quale immagazzinerà le cifre e le confronterà con migliaia di altre per controllare se abbiamo sgarrato o se abbiamo dichiarato il giusto. Al pari di Giampaolo, neanche io sono spaventato dallo spionaggio dell'Agenzia delle entrate. Controllino pure: non avendo nulla da nascondere, mi sottopongo volentieri alla radiografia fiscale. Purtroppo, però, credo non servirà a nulla. Torchiare chi ha un conto bancario non farà incassare un euro in più. Semplicemente indurrà il mezzo evasore a diventare un evasore totale. Come ha ammesso il direttore dell'Agenzia delle entrate in un'intervista a Massimo Mucchetti del Corriere della Sera, i capitali non stanno fermi ad aspettare che lo Stato se li prenda. Alla prima avvisaglia di prelievo dall'Italia vanno in Ticino. E, se serve, dalla Svizzera si spostano a Panama, continuando magari a essere amministrati da Lugano. Insomma, io non penso che controllare i conti in banca, proibire l'uso del contante e tracciare la proprietà di yacht e automobili basterà a mettere con le spalle al muro gli evasori. Chi non paga le tasse si farà più furbo e attento, ma continuerà a non pagare, perché più le imposte salgono e più il gioco conviene. L'unico vero risultato che si otterrà inasprendo i controlli, temo, sarà quello che il sociologo Luca Ricolfi ha illustrato su Panorama: l'economia italiana rallenterà. Come vent'anni fa, quando  il nostro Paese cresceva di più degli altri, ma poi improvvisamente si fermò. La ragione non fu dovuta a un cambio di governo o alla congiuntura internazionale. Semplicemente, l'Italia passò da una pressione fiscale più bassa a una più alta. Scrive il professore torinese: «Rispetto alle principali economie  occidentali avevamo un vantaggio di 6,6 punti di pil negli anni '70, di 2,4 punti di pil negli anni '80, ma già negli anni '90 quel vantaggio si era trasformato in un handicap di 3,4 punti, saliti a cinque negli anni 2000». In pratica, rispetto al periodo in cui l'economia tirava, oggi lo Stato preleva ogni anno dalle tasche degli italiani una cifra di circa 200 miliardi di euro. A questo punto Ricolfi si domanda: «È un caso che il motore dell'Italia abbia cominciato a incepparsi proprio quando la nostra classe politica ha varcato il Rubicone della pressione fiscale, portando il prelievo al di sopra di quello dei nostri concorrenti?». La risposta è facile: no, non è un caso. di Maurizio Belpietro

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