L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Un ministro che ci stangasse e poi venisse a piangere sulle nostre spalle, chiedendo comprensione, non ci era ancora capitato di vederlo. Ma ieri, grazie al cosiddetto governo tecnico ci è toccato anche quello. Annunciando la riforma delle pensioni, che fa salire a 42 anni i contributi necessari per ritirarsi dal lavoro, la responsabile del Welfare è scoppiata in lacrime, dimostrando che le pesa mandare a riposo le persone dopo i 66 anni. Ma se Elsa Fornero si commuove, a noi tocca pagare il conto. E che si tratti di un conteggio salato è fuor di dubbio. Per quanto ieri Mario Monti e Corrado Passera si siano sforzati di presentare il volto umano della manovra, quella varata dal Consiglio dei ministri è una legnata vera e propria, che contiene tutto ciò per cui ci eravamo preoccupati nei giorni scorsi. È saltato - probabilmente per merito delle critiche, nostre e di altri - il salasso sull'Irpef, che avrebbe portato la tassazione dei redditi alla soglia del cinquanta per cento. Ma sono stati confermati i più neri timori, a cominciare da quello sui conti correnti e sui titoli. Per evitare di somigliare a Giuliano Amato, il premier ha deciso di non mettere direttamente le mani in tasca agli italiani, ma di farlo sotto parvenza di un bollo. In pratica una nuova gabella peserà su depositi e risparmi in forma progressiva, così da scippare il più possibile in base alle consistenze lasciate in banca. Poteva poi mancare un prelievo sulla casa? Ovviamente no: i redditi, i conti correnti e le abitazioni, insieme con la benzina e le sigarette, sono gli obiettivi più facili per i governi a corto di idee. E dunque i professori non hanno fatto eccezione, reintroducendo l'Ici e preparandosi ad aumentare gli estimi catastali del 60 per cento. Obiettivo: rastrellare 10 miliardi, colpendo l'unico vero bene delle famiglie italiane. E saranno queste ultime a pagare il costo più pesante delle misure, come ha candidamente ammesso il viceministro dell'Economia Vittorio Grilli. Il resto arriverà dalle addizionali che gli enti locali potranno aumentare e dall'inasprimento dell'Iva. Nonostante le promesse, Monti e i suoi ministri non ha fatto una manovra che rilancerà l'Italia. Ne ha fatta una che finirà per affossarla. Altro che misure per la crescita: ce la stanno mettendo tutta per condannarci al nanismo. Già, perché dopo tanto studiare, il governo bocconiano ha partorito una serie di provvedimenti che si basano in gran parte sulle tasse. Sulla casa, sui conti correnti, sui redditi: la raffica di imposte è davvero impressionante come disse Angela Merkel. Ciò che manca sono i tagli. In pratica, l'alto consesso di docenti universitari messi alla guida del Paese ha deciso di sistemare i conti scassati dello Stato non riducendo le spese, ma aumentando i tributi. È come se il pastore a corto di denaro decidesse di tosare un'altra volta le pecore appena tosate invece di diminuire i costi del sua azienda agricola. Chiunque, anche un pecoraio privo di master nella più esclusiva delle università italiane, sa che per eccesso di rasatura l'animale può ammalarsi e perfino morire. E per questo il taglio è fatto con misura. Ma le buone regole che valgono per gli ovini a quanto pare non valgono per i contribuenti italiani, i quali sono chiamati a svenarsi più di quanto già non facciano. Di fronte alle richieste di mettere a dieta lo Stato spendaccione, il presidente del Consiglio dei ministri ha saputo solo annunciare che egli non percepirà lo stipendio da premier (ma si è ben guardato dal rinunciare a quello più cospicuo di senatore a vita). Ben poca cosa rispetto alle attese. E non molto incide pure l'annunciata riduzione del numero di componenti dei consigli provinciali: invece di trenta saranno dieci. Tuttavia le province rimangono, le loro funzioni non vengono trasferite ad altri enti e gli uffici non sono accorpati. E le migliaia di enti inutili? L'esercito di funzionari pubblici? La montagna di soldi che ogni anno le Regioni si ingoiano per spese improduttive e clientelari? Alle domande Monti si è limitato a rispondere annunciando tagli nei finanziamenti agli enti locali. Ma il governo con una mano toglie e con l'altra dà. O meglio: danno gli italiani, i quali saranno chiamati a pagare l'addizionale Irpef con cui le amministrazioni decentrate compenseranno le riduzioni dei trasferimenti statali. E la tanto sbandierata lotta all'evasione? Nonostante le rassicurazioni fornite, il governo non sembra crederci poi molto. Certo ha annunciato che chi ha scudato versando solo il cinque per cento dovrà corrispondere un altro 1,5 per cento (ammesso di trovare gli evasori, visto che sono protetti dall'anonimato) e che i meccanismi per acchiappare chi non paga saranno rafforzati. Ma si tratta di promesse, come del resto fanno tutti i governi. Fosse convinto di poter mettere le mani sui 130 miliardi nascosti e su cui non viene pagato un euro al Fisco, il premier avrebbe potuto risparmiarsi la stangata su casa e conti correnti. Il solo gettito sui fondi in nero risolverebbe tutti i nostri problemi. Invece, tocca ai soliti noti sganciare. Niente di nuovo neppure dal fronte delle liberalizzazioni. Alla fine l'unica autorizzata è quella dell'aspirina, che non si venderà più solo in farmacia ma anche in altri negozi. Ma non basta un po' di acido acetilsalicilico a far passare la febbre alla nostra economia. La cura è talmente blanda, anzi dannosa, che perfino dei bocconiani come Francesco Giavazzi e Alberto Alesina ieri lo hanno scritto sul Corriere della Sera. I due prof per mezzo dell'organo di stampa che ha tenuto a battesimo il governo tecnico, hanno spedito a Monti una letterina in cui gli spiegano che così non va, anzi che va a sbattere, lui e l'Italia. Se perfino la Bocconi boccia il bocconiano dell'anno, immaginatevi cosa faranno i mercati.