Cerca
Cerca
+

L'editoriale

default_image

di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
  • a
  • a
  • a

Che Gianfranco Fini non fosse un'aquila lo avevamo intuito da un pezzo. Come coloro i quali incontrano la fortuna e le danno un calcio, il presidente della Camera ha avuto tra le mani il biglietto della lotteria, che nel suo caso era rappresentato dalla opportunità di diventare presidente del Consiglio, ma lo ha stracciato, riducendolo in coriandoli. Non si può spiegare in altro modo la tecnica suicida con cui si è impegnato a distruggere tutte le occasioni avute per subentrare  a Silvio Berlusconi. L'incarico di capo del prossimo governo gli sarebbe caduto tra le mani senza che egli facesse niente.  Restando zitto e defilato, per via del  ruolo istituzionale ricoperto,  alle prime avvisaglie di stanchezza o debolezza del Cavaliere, sarebbe stato automatico pensare a lui come successore del premier. La lunga militanza nel Msi, l'esperienza quasi trentennale in Parlamento, gli anni alla guida di An, l'incarico di ministro degli Esteri prima e la presidenza della Camera poi, ne facevano di fatto il leader naturale del centrodestra. Fossimo stati nei suoi panni, dunque, ci saremmo impegnati a renderci invisibili, evitando qualsiasi frizione con l'attuale inquilino di Palazzo Chigi. E invece no. Gianfranco Fini ha fatto l'esatto contrario. Appena seduto sullo scranno più alto di Montecitorio, l'uomo di Fiuggi si è impegnato fino allo spasimo per soffiare la poltrona a Silvio. Come un Renzi qualsiasi si è messo a fare il rottamatore, dimenticandosi  di essere non solo un arbitro, ma di aver ricevuto la nomina grazie al centrodestra. Con questo atteggiamento, il presidente della Camera da futuro prossimo leader dei moderati si è trasformato in passato remoto dei trombati.  Ne ha dato prova anche martedì sera nella puntata di Ballarò. Smessi i panni di terza carica dello Stato e gettata anche la minima parvenza  di equidistanza tra le parti, Fini si è mostrato per quel che è: un capo bastone che è stato bastonato. Poco più di un anno fa, grazie alla sua smodata ambizione già si immaginava a Palazzo Chigi, lanciato nell'olimpo dei grandi statisti della Repubblica. Ma falliti uno dopo l'altro i tentativi di fare lo sgambetto al governo, l'ex delfino di Almirante si è ritrovato alla guida di una sparuta pattuglia di deputati senza riuscire a tenere a freno la frustrazione. E nello studio di Floris ha dato sfogo a tutto il suo risentimento, sprizzando rancorosità da ogni poro e arrivando al punto - lui che ai tempi della casa di Montecarlo si era lamentato quando la moglie era stata messa sotto i riflettori - di attaccare Bossi per tramite della consorte. L'affondo,  oltre ad essere una caduta di stile per un uomo che solo un anno fa si candidava a ruoli prestigiosi, è stato anche un autogol  disastroso. Infatti, se per far cadere il Cavaliere Gianfranco confidava nel tradimento di una parte dei leghisti, con la mossa di martedì ha ottenuto l'effetto contrario e cioè di ricompattare i parlamentari del Carroccio. Esponenti del cerchio magico e maroniani si sono ritrovati improvvisamente sotto un'unica bandiera, quella del capo, mettendo da parte ambizioni e rivalità tra schieramenti. Non solo: sulle pensioni, il presidente della Camera è l'ultimo a poter fare la morale agli altri. Nonostante non abbia di fatto mai lavorato, grazie ai quasi trent'anni fra i  banchi di Montecitorio andrà a riposo con un super  vitalizio, vale a dire un assegno quadruplo  o quintuplo rispetto a quello di qualsiasi baby pensionato dell'Inps. Ma anche se la faccia tosta al leader di Fli non è mai mancata, l'ennesimo scivolone dopo i molti patiti nell'ultimo anno questa volta rischia di lasciare il segno. In seguito alla mancata spallata del 14 dicembre e allo slittamento sempre più a sinistra dei suoi colonnelli, già Fini è diventato marginale nei grandi giochi della politica. Il motore del terzo polo, schieramento in cui ha cercato di annacquare le sue sconfitte, ormai non è più lui bensì Pier Ferdinando Casini. Ma da quando ha perduto definitivamente l'aplomb istituzionale, le possibilità di un suo riscatto si fanno ancor più deboli. In una parola, da risorsa per i centristi, l'ex cofondatore del Pdl sta diventando una zavorra. Resta solo da stabilire quando l'Udc si deciderà a scaricarlo. Tuttavia, se sarà mandato in pensione, a Fini resterà sempre la possibilità di consolarsi con l'assegno di quiescenza. Che è pur sempre superiore a quello di Lady Bossi.

Dai blog