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Andrea Tempestini
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ma quali infiltrati Violenze programmate da mesi E adesso parlano di due piazze Xxx xxx Nella memoria del 15 ottobre romano non rimarrà un solo slogan, non si ricorderà un solo striscione, né una qualsiasi tesi politica. I cosiddetti indignati si sono prestati come massa di manovra a un'avanguardia che è riuscita a prendere in mano le sorti del corteo. Come si prevedeva, alla faccia di chi era sceso in piazza, forse ingenuamente, contro la classe politica, la finanza, la disoccupazione e la crisi. Tutta gente che ha recitato la parte del fiancheggiatore moltiplicando la rabbia e l'odio. I commando, che la pensano allo stesso modo, hanno adottato la tecnica sperimentata, che consiste nel nascondersi fra la folla, uscire, colpire e rientrare. È semplice: se la folla non c'è, il piano fallisce. Quello di ieri era un attacco in piena regola al governo Berlusconi, all'indomani del tentativo fallito di rovesciarlo per via parlamentare. Ecco perché non ha nessun senso definire “infiltrati” le centinaia di violenti che attaccavano le forze dell'ordine, mentre i “pacifici” li spalleggiavano protestando contro la polizia e i carabinieri. Si sapeva già dalla metà di settembre come sarebbe andata a finire, che non si sarebbe trattato di una colorita protesta casualmente infestata da sparuti episodi di guerriglia urbana. Chi festeggia, intonando canzoni rivoluzionarie mentre esplode una camionetta dei carabinieri, sono proprio i partecipanti tranquilli, che ridono, telefonano, smanettano con i loro smartphone, scattano le foto ricordo. Un accenno di reazione verso i “compagni che sbagliano” c'è, a dire il vero, perfino nella moltitudine di utili idioti. Peccato che urlino «Bande di fascisti, andatevene» ai black bloc, dimostrando di non voler capire. Qualcuno li ferma e li fa arrestare. È tardi per dividersi in buoni e cattivi. I “buoni” devono rassegnarsi a tornare a casa, sconfitti per aver sottovalutato il rischio guerra civile. L'unico modo di evitarla e di non farsi strumentalizzare sarebbe stato rimanersene a casa, una volta appresa la notizia che i centri sociali, gli antifa, i collettivi romani avevano dissotterrato l'ascia di guerra. Il messaggio più diffuso nel tam-tam sul web vaticinava: «Seppur si siano accodati a cose fatte Cgil e suoi lacchè, l'iniziativa (europea) nasce con spirito sorprendentemente rivoluzionario. Pare che col crollo di tutto ciò che può crollare di organico al sistema capitalista anche i sassi inizino a muoversi». I sassi e anche il resto, visto l'invito a «portare con sé di “tutto” per prendere e tenere la piazza!». Era un caos pianificato alle assemblee, sui blog, nei passaparola e il clima si era irrimediabilmente avvelenato. Anche gli organizzatori della giornata di ieri avevano ammesso di non essere in grado di garantire l'ordine. Se qualcuno, a un mese dall'appuntamento, si era spinto a invocare «la forza della disperazione» per «vincere i mercenari del capitale. 10mila guardie non possono fermare 40mila ribelli!», era fin troppo chiaro che non ci si stava più muovendo più all'interno delle regole democratiche. Perfino uno che alla rappresentanza popolare non ha mai creduto troppo, come Bifo Berardi, aveva avvertito che si stava rischiando una tragedia. Con un lato più comico che drammatico: il tanto desiderato cambiamento globale non avverrà proprio a causa dell'insurrezione degli incappucciati. Quelli che casualmente erano a capo scoperto non possono indignarsi con i loro compagni di strada, ma con se stessi. di Andrea Morigi

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