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L'editoriale

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di Maria Giovanna Maglie

Giulio Bucchi
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DI MARIA G. MAGLIE - Quattro uffici decentrati a Monza dei quali al popolo leghista non è parso importasse granché forse non valgono il simbolo e hanno aperto stoltamente  la polemica, ma anche chi quella polemica tiene ancora tanto alta, menando tale scandalo nonostante nello stesso tempo lamenti che la conflittualità rende debole l'iniziativa politica, dovrebbe interrogarsi sulle sue responsabilità. Non mi riferisco solo all'ira di Giorgio Napolitano, ma soprattutto a quella, nel senso che lasciamo perdere lo sdegno di Gianni Alemanno per l'onta a Roma capitale, il sindaco farebbe meglio a spiegarci come è stato possibile che il teatro Valle, storia vera di Roma, stia per diventare come il Leoncavallo a Milano; e lasciamo perdere pure l'ira di riporto del presidente della Regione, Renata Polverini, che va in elicottero alla sagra del peperoncino e si risente pure se il giornalista de Il Fatto la pizzica con le pale in bocca. Stiamo sul presidente della Repubblica che si presenta rigorosamente come uomo super partes, cosa che nella storia della nostra Repubblica a nessuno è mai riuscita e in molti non hanno neanche preteso che dovesse riuscire, e che però prende cappello un po' troppo spesso a senso unico, e la parabola del trave e della pagliuzza finisce col venire alla mente. Ormai le famose frasi del presidente del Consiglio Romano Prodi sulla capitale reticolare, sulle strutture del comando del Paese  «ora localizzate a Roma, ma da far vivere invece in tutto il territorio», insomma l'intero repertorio di quel discorso del 31 maggio del 1996 a Montecitorio con il quale si lanciava il federalismo e si strizzava pesantemente l'occhio alla Lega, hanno invaso i blog e occupato Facebook, possibile che nessuno al Quirinale le abbia  mostrate al presidente, così giusto per fargli un po' smontare l'ansia, per ridimensionare l'attacco alla Costituzione, dio ci scampi? Lui quel giorno del 1996 c'era, era ministro dell'Interno, e c'erano  tutti o una buona parte di coloro che oggi soffrono della pagliacciata e denunciano l'attacco all'Italia unita, per esempio una come la Finocchiaro, che a sdegnarsi ci si incanutisce, era ministro delle Pari opportunità. Dal 1996 sono passati molti anni, quindici, ma nel senso che l'idea federalista dovrebbe essersi evoluta, approfondita, accettata culturalmente, non il contrario. Per dirla con Prodi, «Vogliamo cominciare davvero la realizzazione di quello che è negli stati federali, cioè che non solo uffici decentrati, ma anche grandi centri decisionali sono distribuiti nel Paese», o non vogliamo? Certo, all'epoca una Lega approdata al dieci per cento, non schierata, faceva una gran gola, ma l'appeal delle alleanze vale per tutti, non solo per gli amici. Tutti quindici anni fa, dal Quirinale meno super partes della storia, quello di Scalfaro, ai ministri del governo Prodi e ai partiti di governo e d'opposizione, non avvertirono offesa. In quel governo c'era anche il professor Franco Bassanini, grande disegnatore di riforme politiche, il quale oggi dichiara naturalmente non da destra: «La mia riforma? A tradirla è stato Prodi», e ricorda quelle 104 poltrone per decreto sfornate per accontentare tutti i partiti dell'allegro calderone di centro sinistra, e siamo nel 2006, attenzione. «Un precedente tutt'altro che commendevole» lo giudica il professore e così giudica il fastidio dimostrato oggi da Giorgio Napolitano per l'aumento dei sottosegretari pescati dai cosiddetti Responsabili: «Fa bene il capo dello Stato a sottolineare come non ci siano i requisiti di necessità e urgenza. Tuttavia, giudico molto diversamente la moltiplicazione e la frammentazione dei ministeri fatta da Prodi nel 2006, che ci allontana dal modello europeo e che comporta costi elevati, dal'aumento dei sottosegretari. Prodi si giustificò dicendo che la sua maggioranza era formata da dodici partiti, tutti decisivi, almeno al Senato: doveva soddisfarli tutti. Ma avrebbe potuto prendere atto che il centro sinistra non poteva governare con numeri così risicati e formare una Grosse Koalition come proposto da Berlusconi». Nel 2006 al Colle era arrivato da pochi giorni Giorgio Napolitano, si capisce come fosse allora distratto dalla novità, dal trasloco, dal dover prendere le misure, come si dice, col nuovo prestigioso incarico. Per questo evidentemente tacque, allora. Il problema è capire se oggi non si senta un po' commissario straordinario di questo nostro Paese, che  non sarebbe nel dettato della Costituzione.

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