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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Ve li ricordate gli sfottò di diciassette anni fa, quando Silvio Berlusconi decise di fondare Forza Italia e di sfidare la gioiosa macchina da guerra? I giornali ironizzarono sulla calza davanti alla macchina da presa per creare l'effetto flou. Altri presero di mira la libreria che stava alle spalle del Cavaliere per il famoso discorso della discesa in campo. Per non parlare del jingle, che venne liquidato come un'americanata. In pratica tutti si concentrarono sulla scenografia e nessuno sulla sostanza. In realtà, quello che venne giudicato un partito di plastica, fondato in fretta utilizzando i sondaggi e il marketing quasi fosse un prodotto da vendere, si è rivelato meno finto di quanto i critici immaginassero. Per quasi vent'anni il movimento voluto da un impresario della tv senza nessuna esperienza politica è stato la sola novità della politica. Forza Italia prima e il Pdl poi hanno rivoluzionato i rapporti con gli altri gruppi, imponendo il bipolarismo e l'elezione diretta del premier, sottraendo le decisioni al volere dei soliti noti. Una svolta che  nessuna riforma elettorale era mai riuscita a imporre, neppure quella introdotta in seguito al referendum di Mario Segni. Ma non è qui il caso di far l'elenco dei meriti di Berlusconi: i bilanci in genere si tirano a fine carriera e non ci pare che il presidente del consiglio sia prossimo al ritiro. Se abbiamo ricordato la discesa in campo e il '94 è per un'altra ragione. Immaginiamo infatti che oggi i quotidiani saranno pieni di osservazioni irridenti circa il consiglio nazionale che ha acclamato Angelino Alfano segretario del Popolo della libertà. Abituati ai congressi della Balena bianca e a quelli dell'Orso rosso, i giornalisti, ma anche i reduci della Prima Repubblica, vorrebbero che si ripetessero i riti dell'epoca, con i delegati, i signori delle tessere, la lottizzazione e le correnti. Dimostrando con ciò di non aver capito nulla di quel che è stato il centrodestra in Italia negli ultimi tre lustri. È vero, il Pdl non è un partito. O per lo meno non lo è nell'accezione generale che gli si attribuisce. Il Popolo della libertà è una formazione che non ha una vera e propria organizzazione, con le strutture dirigenti, gli organismi collegiali. Ma ciò nonostante è vivo e soprattutto ha il consenso di almeno un terzo degli italiani. Occhio dunque a liquidare la liturgia di incoronazione di Angelino Alfano come una sceneggiata, ritenendo che il passaggio di consegne sia stato solo una formalità, anzi un trucco per mascherare le cose, per poi lasciarle esattamente come stavano. La cerimonia celebrata ieri, officiante lo stesso Cavaliere, non è stata una messa in scena e lo si è capito proprio dal discorso del presidente del Consiglio, il quale ha dimostrato di rendersi perfettamente conto che la successione non può essere affidata al caso, pena mettere a rischio la storia del centrodestra degli ultimi vent'anni, ma dev'essere guidata. È vero che le leadership non si lasciano in eredità, ma è altrettanto vero che non si chiude un partito in vista del pensionamento del leader. Dunque l'unica strada è parsa la transizione dolce, condotta dallo stesso Cavaliere, la sola in grado di evitare la balcanizzazione del partito prefigurata negli ultimi mesi. Che la nomina di Alfano non sia una sceneggiata lo si è capito anche dalle parole dello stesso neo segretario, il quale non si è limitato a ringraziare per l'eredità ricevuta, ma ha voluto tracciare un suo programma di massima, con al primo punto le pulizie generali di primavera. Il Pdl negli anni è stato il partito che più si è battuto contro lo strapotere dei pm e come forse era inevitabile qualcuno ha approfittato della battaglia alle toghe rosse per una guerra tutta sua, dove la politica non era proprio l'interesse principale. Incappando per questo in una serie di incidenti. Via dunque gli affaristi e i potentati. Basta con le P4 e con i quattro pirla che ruotano attorno al Parlamento e al partito. Non sappiamo se Alfano sarà in grado di tener fede all'intento o se qualcuno intralcerà la sua strada. Ma che parta da lì non ci dispiace. Se poi, oltre a partire, riuscirà anche ad arrivare, lo vedremo col tempo.

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