L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Ieri Marco Travaglio ha debuttato con il suo nuovo spettacolo dedicato a Indro Montanelli. Un monologo intercalato da testi del fondatore de il Giornale recitati da Isabella Ferrari, l'ultima eroina dell'antiberlusconismo. Ovviamente ci siamo risparmiati la commedia, sapendo in anticipo che la recita avrebbe riproposto il solito copione, quello di un Indro tenacemente nemico del Cavaliere. Intendiamoci, non vogliamo dire che non lo sia stato, soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza, ma fu anche altro. La sua vita non cominciò l'11 gennaio del 1994, quando lasciò il Giornale e iniziò a detestare l'uomo cui l'aveva venduto, ma molto prima. Peccato che di quel periodo si sia persa traccia, soprattutto nei ricordi di Travaglio. Il vicedirettore del Fatto per servire al meglio i suoi lettori, i quali odiano il premier più di quanto abbia fatto lo stesso Indro, è costretto a far rivivere un Montanelli esclusivamente antiberlusconiano. Nel suo libro dedicato al direttore del Giornale critica chi ripropone il «santino» ipocrita di un Montanelli buono per tutti i palati e le stagioni. Lui lo vuole ferocemente contro il Cavaliere, il resto non gli serve. Anzi, lo disturba. Per questa ragione ho deciso di rileggermi i fondi del vecchio Indro, sia di quelli del Giornale che i precedenti. Ne ripropongo qui alcuni brani che riguardano temi d'attualità, sulla Costituzione, i magistrati e altro. Una specie di antologia che non ascolterete dalla bocca dell'uomo autonominatosi custode unico della memoria di Montanelli. Sentenze di condanna per i giudici. Indro non aveva particolare simpatia per pm e affini, cui non lesinava critiche definendoli corporativi e dominati dalle correnti sinistrorse. In occasione del sequestro di un giudice da parte di un gruppo di terroristi non esitò ad attaccare Magistratura democratica per aver contestato la perquisizione di una sede di estremisti rossi e altrettanto fece con alcuni giudici che solidarizzarono con Marco Pannella in polemica con i loro colleghi che lo avevano condannato. «Quando per la porta della Magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra», scrisse citando Piero Calamandrei. Ma oltre alle toghe rosse non amava neppure i magistrati antimafia. Nel 1986 criticò il maxi processo e l'uso che si faceva dei pentiti, ma attaccò pure il pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto. Al contrario giustificò Corrado Carnevale, il giudice «ammazzasentenze», sostenendo che non si poteva colpevolizzare un magistrato che rimandava a piede libero fior di ergastolani se le prove d'accusa erano insussistenti (salvo poi ricredersi qualche anno dopo). Se la prese anche con Felice Casson, il pm che condusse l'inchiesta su Gladio, liquidandolo con una battuta («testa di Casson») che gli costò una condanna. Quando poi si trattò di votare il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, Montanelli si schierò per il sì pur non essendo molto convinto che le toghe dovessero essere colpite nel portafogli. Fosse stato per lui le avrebbe punite in altro modo. «La voglia d'infliggere qualche penale a questi magistrati troppo disinvolti nell'infliggerne agli altri è più che legittima. Se la meritano in pieno». Ma finché la carriera sarà automatica, «sottratta a discriminazioni di merito e garantita da un organo di autocontrollo - il Csm - che, invece di fare il giudice dei giudici fa il loro “padrino” , questa categoria non farà che degradarsi». Anche il processo a Giulio Andreotti non lo convinse: «L'unico processo che si può fare ad Andreotti è un processo politico e l'unico tribunale competente è l'opinione pubblica». E lamentandosi per il lassismo con cui i giudici si occupano dei reati comuni che toccano da vicino la gente, vergò un giudizio impietoso. «Vera o falsa, l'impressione di tutti è questa: che la Magistratura tanto è sensibile al reato politico che solleva scalpore, quanto è inerme di fronte al reato comune». Un Venerabile polverone. Per Montanelli la madre di tutti i misteri era una baggianata. Dopo averlo fatto a pezzi, definendolo affarista e furfante, Indro scrisse che Gelli non era certo un golpista, aggiungendo che lo sgomentava l'idea che ministri, parlamentari, generali, ammiragli, ambasciatori, prefetti, magistrati, professionisti, imprenditori, giornalisti, tutta gente di grido, avesse preso sul serio un personaggio come il capo della P2. «Se questo è il Gotha italiano, figuriamoci il resto. Secondo me meritano davvero la galera. Non per associazione a delinquere, come dicono gl'inquirenti, ma per baggianeria e sconsideratezza». Per Montanelli il venerabile era un venditore di fumo, una miscela di avventuriero e millantatore, che non giustificava il clima di linciaggio montato nel Paese verso i tesserati della loggia segreta. La guerra delle spie. Ci fu un'altra inchiesta giudiziaria che il fondatore del Giornale non mandò giù: quella in cui furono coinvolti i nostri servizi segreti, accusati di essere deviati. Quella zona grigia tra criminali e spioni, quell'attività illegale di violare la corrispondenza e di mettere dei microfoni nei telefoni oltre che scassinare serrature di scrivanie e casseforti, non lo indignava. «Qualcuno dirà che tutto ciò è profondamente immorale, e siamo d'accordo. Purtroppo ogni regime ha le sue ipocrisie, e la democrazia forse più degli altri. Essa sa che lo spionaggio, necessario alla sua difesa, non può servirsi di mezzi legali, ma chiede di non essere costretto ad accorgersene, come nella case che tengono a un certo decoro tutti sanno che vi sono le fogne, ma cercano di dimenticarlo impedendo che puzzino. Così un tacito patto impegna tutte le persone di buon senso, a cominciare da quelle che esercitano il potere, a lasciare la guerra di spie nel buio in cui si svolge. Consci del fatto che, fin quando la si ritiene necessaria bisogna praticarla secondo le regole sue, non secondo quelle del codice penale». La Pasionaria coi merletti. Di Indro si deve ricordare anche la posizione tenuta a proposito della strategia della tensione, giudicata un romanzo, una regia attribuita alla Dc e che fu da lui considerata semplicemente ridicola. A far le spese delle sue opinioni in materia fu soprattutto Camilla Cederna , la maestrina con la penna rossa che scriveva per l'Espresso, alla quale si rivolse con una lettera sprezzante. «Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse , tu abbia optato per quello degli anarchici (...), facendo anche del povero Pinelli un personaggio da café society , non mi stupisce: gli anarchici per lo meno odorano d'uomo anche se forse un po' troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro buone maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga.» La Costituzione migliora con l'età. Il meglio Montanelli lo riservò però alla Carta uscita dalla commissione bicamerale nel 1947 e sulla quale si fondò la Repubblica, quella che a ogni istante viene brandita per impedire che in questo Paese cambi qualcosa. Già il titolo del suo fondo promette bene: La costituzione non è la Bibbia. Parlando dei difetti di cui è costellata, Indro scrisse che la più grossa magagna «è l'inefficienza a cui condanna il potere esecutivo, cioè il governo, sottoponendolo non al controllo del potere legislativo, cioè il Parlamento, come dev'essere, ma al suo arbitrio. Un potere esecutivo che abbia la necessaria forza operativa è la più urgente delle riforme». Ma prima ancora aveva preso in giro chi considerava la Costituzione un capolavoro. «Dalla televisione siamo abituati a sentirne di tutti i colori. Ma una delle più grosse è stata quella di un tizio che, celebrandosi l'anno scorso il venticinquesimo della Costituzione, l'ha definita un testo che “migliora col tempo”. Di tempo, al contrario, n'è occorso ben poco perché mostrasse le rughe e le crepe di una vecchiaia precoce». Secondo lui eravamo prossimi al collasso non per colpa soltanto della Costituzione, ma anche di quella. Tra i cui difetti, «il più grave è quello di essersi ammanta di una intoccabilità talmudica che ne rende praticamente impossibili le revisioni. I partiti, da essa privilegiati, le montano intorno una guardia ferrea». La legittima difesa dal fisco. Ormai se ne sono tutti dimenticati, ma quasi vent'anni fa , Indro difese il condono edilizio, giudicandolo un male minore e di fronte alla protesta dei contribuenti vessati da un eccesso di tasse non ebbe problemi a schierarsi con «il popolo dei tartassati» contro il ministro delle Finanze, Bruno Visentini, impegnato a combattere l'evasione del lavoro autonomo. «La protesta - sacrosanta - contro un sistema fiscale assurdo non soltanto e non tanto per la sua pesantezza, quanto per la sua farragine - una farragine che Visentini, con tutta la sua competenza e professionalità, lungi dal ridurla, ha reso ancor più aggrovigliata - è solo il prodromo di una profonda rivolta della società civile contro il sistema politico». Naturalmente potremmo continuare con molti altri articoli dimenticati, ma credo che questi bastino a capire che il «santino ipocrita» è quello che confeziona Travaglio, consegnando un'immagine distorta del direttore del Giornale. Altro che erede di Montanelli: se si confronta ciò che scriveva Indro su giudici, Costituzione, processi e fisco con ciò che dice Berlusconi, si capisce il vero erede è lui, il quale 17 anni fa raccolse il testimone facendo propri i grandi temi ch'erano della destra. E forse è proprio per questo che Montanelli negli ultimi anni non lo sopportava.