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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Se non riguardano un delitto che abbia suscitato particolare attenzione tipo quelli di Cogne o di via Poma, in genere i processi annoiano gli italiani, i quali si limitano a registrare il verdetto finale, disinteressandosi di quanto accade in tribunale. Non fanno eccezione i procedimenti che riguardano il Cavaliere, di cui, nonostante la notorietà dell'imputato, i giornali si occupano solamente al momento dell'avvio e quando giungono a sentenza. Ormai neanche i cronisti specializzati li seguono più, ciò nonostante in Parlamento e sui giornali si discute quotidianamente dei guai giudiziari del Cavaliere dividendosi su cose di cui si sa poco o nulla. È successo anche in questi giorni, appena si è entrati nel vivo del dibattito sul cosiddetto processo breve, che l'opposizione ha immediatamente ribattezzato processo ammazza processi. Di Berlusconi, ovviamente. In realtà le cose non stanno così, perché la nuova legge in discussione alla Camera di procedimenti a carico del premier non ne ammazza nessuno. O meglio: dei quattro dibattimenti in corso, uno solo morirà per prescrizione, ma il decesso sarebbe avvenuto ugualmente, anche senza l'intervento delle nuove norme. Il cosiddetto processo Mills è infatti un morto che avanza e la procura di Milano tenta di tenerlo in vita con un accanimento terapeutico mai visto prima d'ora. Per evitarne la prescrizione, i pm hanno addirittura posticipato il reato, sostenendo che la corruzione non si commette nel momento in cui si riceve qualcosa - denaro o altro – ma quando quel qualcosa lo si spende. Come dire che se non si usassero i soldi percepiti, la concussione non ci sarebbe: in tal caso basterebbe tenere i quattrini in banca o sotto il materasso per sfuggire alla giustizia. Ma nonostante le scemenze giuridiche, il processo Mills è giunto al capolinea, nel senso che essendo da poco iniziate le udienze di primo grado, è matematicamente certo che non ci saranno quelle di secondo, sicché al massimo si potrà arrivare a una sentenza non definitiva da annullarsi poi per intervenuta prescrizione. Chiunque, anche un bambino, a questo punto lascerebbe perdere, evitando di sprecare tempo e denaro. Chiunque, ma non i pubblici ministeri di Milano, i quali sebbene vi siano ancora da inoltrare le rogatorie per sentire i testimoni che risiedono all'estero procedono sparati come un missile contro il Cavaliere. Si dirà che la giustizia fa il proprio mestiere, indipendentemente dal risultato, dai tempi e da chi è l'imputato. Ma si tratta di una banalità. Se la giustizia facesse il proprio corso senza guardare in faccia a nessuno, limitandosi a studiare carte e prove documentali, il processo Mills non sarebbe neppure iniziato, finendo direttamente nei sottoscala del tribunale, archiviato come migliaia di altri procedimenti chiusi in assenza di reato. Essendoci di mezzo Berlusconi, al contrario la faccenda ha già prodotto una condanna, quella dell'avvocato che dà il nome al processo, e si appresta a produrne un'altra, ancorché non definitiva. Eppure se si leggessero le carte, si ascoltassero i testimoni, non si potrebbe concludere in altro modo da quello indicato ossia con l'archiviazione perché il fatto non sussiste. Vediamo di ricapitolare, proprio partendo da quel che succede in tribunale e che i giornali così attenti ai processi di Berlusconi ignorano. Il 21 marzo, in un'aula del palazzo di Giustizia, i pm hanno convocato uno dei principali testimoni dell'accusa, ovvero il consulente finanziario che in questi anni ha passato al setaccio i conti dell'avvocato inglese che per i giudici fu corrotto da Berlusconi. Come è noto, i pm sostengono che il Cavaliere comprò il suo silenzio in cambio di 600mila dollari e questa è la versione pacificamente accettata anche dalla Cassazione, che ha condannato Mills. Ma durante l'interrogatorio dell'esperto, la dottoressa Gabriella Chersicla, si è capita una cosa, ovvero che non c'è traccia di un solo euro pagato da Berlusconi a Mills. Dopo aver analizzato grafici, intrecci azionari, finanziarie estere e scatole cinesi disseminate in vari paradisi fiscali, con imbarazzo la signora hadovuto ammettere che non esiste un bonifico, un assegno o una qualsiasi altra evidenza bancaria che sia riconducibile al Cavaliere. A casa mia questo taglierebbe la testa al toro: se non c'è ildenaro, non c'è la corruzione. Chi infatti indagherebbe su un delitto in cui non si trova l'arma e il cadavere ma solo le chiacchiere? Nessuno. Al contrario, nel caso in questione, non solo si è indagato, ma si è pure fatto un processo. Anzi due. Andiamo avanti e vediamo di spiegare il resto della storia. Mills, dicevamo, è un avvocato. Non di quelli che vanno in aula a difendere i rubagalline, ma un legale che si occupa di fondi esteri. Nel passato ha fornito i suoi servigi alla Fininvest e a molti imprenditori italiani, tra i quali Flavio Briatore. Negli anni Novanta gli capitò però anche un armatore campano, il quale essendo in odore di arresto gli affidò tutti i risparmi, nella speranza di nasconderli ai creditori. Un'operazione non proprio cristallina, che Mills si fece pagare in nero per evitare clamore intorno alla faccenda. Passato del tempo, quei soldi però sono tornati a galla perché i soci dell'avvocato ne reclamarono una parte, convinti che ogni provento fosse da dividere fra tutti gli appartenenti allo studio. Ma l'avido Mills li voleva per sé e soprattutto non intendeva pagare le tasse. Ragion per cui si inventò una balla, sostenendo che il denaro era frutto di una regalia di Carlo Bernasconi, uno dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi. Perché proprio Bernasconi e non qualcun altro che si prestasse a fare da paravento? Perché Bernasconi non avrebbe mai potuto smentirlo, essendo morto da qualche anno. In realtà, mettendo nel mezzo il nome di un funzionario della Fininvest, Mills si è infilato in un pasticcio più grande di quello che gli sarebbe capitato se avesse detto subito la verità. Non solo infatti il fisco inglese non gli ha creduto e lo ha costretto a pagare le tasse convinto che quei 600 mila dollari fossero davvero arrivati dall'armatore campano e non da Bernasconi, ma si è pure beccato una condanna in Italia perché al contrario la Procura di Milano gli ha creduto. I pm infatti hanno preso per buona la versione iniziale da lui fornita agli agenti delle imposte di sua Maestà, ignorando la successiva ritrattazione di fronte al fisco inglese e anche al tribunale italiano. Ovviamente,in presenza di un avvocato pasticcione che fornisce più versioni sul suo arricchimento, chiunque sarebbe autorizzato ad avere riserve su come andarono le cose. Ma si dà il fatto che i dubbi siano una cosa e le prove un'altra. E la prova regina in questo caso è una sola: i soldi. Senza la presenza di quelli non c'è una certezza documentale della corruzione, ma solo una supposizione. So che in questo Paese anche le supposizioni entrano nei processi e a volte contribuiscono a far condannare le persone. Ma il principio di innocenza contenuto nella Costituzione lo sconsiglia. A mandar giù queste sentenze riesce solo chi usa il pregiudizio come digestivo. Noi che tali bevande non abbiamo l'abitudine di consumarle, fatichiamo dunque a berci le accuse contro il Cavaliere e siamo costretti a ripeterci. Rimettete in funzione l'articolo 68, quello sull'immunità dei parlamentari, e fatela finita con i processi ai politici, o, meglio, a un politico. Vanno avanti da troppo tempo e sempre fra mille riserve e perplessità. Altro che legittimo impedimento. Qui bisognerebbe far diventare legge il legittimo dubbio.

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