L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Sui giornaloni dell'ex borghesia italiana e sui giornalini dell'ex sinistra staliniana è passato inosservato il commento di Massimo D'Alema a quel che sta succedendo in Parlamento. Intervistato da un giornalista di La 7 per il programma In onda, il presidente del Copasir prima ha criticato il passaggio di alcuni deputati del Pd e dell'Idv definendolo disgustoso, poi ha respinto con un eloquente gesto della mano i desideri degli elettori. Le frasi dell'ex segretario dei Ds sono importanti. Non solo perché vi si trova conferma di quanto andiamo dicendo da settimane, ovvero che il Pd ha una fifa blu del voto e non ha alcuna intenzione di portarci alle elezioni, anche se a chiederle sono i suoi militanti. Ma pure perché vi è la straordinaria testimonianza della doppiezza dell'opposizione, a quale si scandalizza per ciò che essa stessa ha praticato con successo. Come documenta il nostro Andrea Scaglia a pagina 12, la compravendita degli onorevoli fu infatti lo strumento che portò lo stesso D'Alema a Palazzo Chigi e non risulta che all'epoca Baffino lo giudicasse indecente né si ha notizia della vergogna provata da Pier Luigi Bersani, che pure nel governo sostenuto da una ventina di voltagabbana ricoprì la carica di ministro. La doppia morale non è però un'esclusiva degli esponenti del Partito democratico, anzi: all'attuale presidente della Camera è riuscito di meglio. Tralasciamo la quantità di volte in cui si è contraddetto (servirebbe un libro, proprio come ha fatto il nostro Luca Negri con il suo Doppifini, in libreria per Vallecchi) e restiamo a ciò che è accaduto ieri, dopo il discorso di Berlusconi al Senato. I passaggi dedicati alle privatizzazioni e alla legge elettorale, oltre a quelli sul rimpasto della compagine governativa, sono stati un segnale d'apertura nei confronti del Partito liberale, dei tre tenori di Responsabilità nazionale e pure delle colombe di Futuro e Libertà. Messaggi andati a segno, che probabilmente hanno smosso qualcosa, tanto da far traballare la sicurezza granitica mostrata da Gianfranco Fini di fronte alle telecamere di Lucia Annunziata. Così, senza scendere dal piedistallo del suo scranno di Montecitorio, il presidente della Camera ha convocato uno ad uno gli indecisi, provvedendo a convincerli o almeno provandoci. In pratica l'uomo che da mesi impartisce lezioni di galateo costituzionale al capo del governo ha trasformato il suo ufficio istituzionale in una sezione di partito. Ai tempi di Casini e Bertinotti, che pure erano leader di due gruppi di maggioranza, venivano almeno rispettate le forme, evitando le riunioni delle correnti nello studio del presidente. Ma l'attuale inquilino della Camera evidentemente non ha tempo per le parvenze. Egli con il voto di oggi si gioca tutto, in particolare la propria smodata ambizione. Se Berlusconi riuscisse a spuntarla, per il suo nemico giurato sarebbe la fine. Altro che presidenza della Repubblica, incarico cui ambisce: Fini al massimo potrebbe aspirare all'incarico della bocciofila parlamentare. Dunque il presidente della Camera non ha esitato a mettere sotto i tacchi il suo ruolo e la terzietà che dovrebbe mantenere. Fosse possibile oggi abbandonerebbe la poltrona su cui è stato issato dagli elettori di centrodestra per scendere almeno dieci minuti tra i banchi parlamentari e votare egli stesso la sfiducia a Berlusconi. Ipotesi non troppo campata in aria, come ha fatto capire ieri Fabio Granata. Di fronte all'indecoroso spettacolo che dovrebbe spingere chiunque abbia a cuore davvero la Costituzione a reclamare le dimissioni di Fini, una sola considerazione ci consola: siamo alle porcate finali.