L'editoriale
di Giampaolo Pansa
di Giampaolo Pansa - Che cosa farà Fini? Quale sarà l'annuncio previsto per domenica nella convention futurista di Perugia? Resterà dentro il governo Berlusconi o deciderà di limitarsi all'appoggio esterno? Provocherà le elezioni anticipate o continuerà a considerarle una prova diabolica, da evitare a tutti i costi? Confesso che mi sono stancato di veder piovere sui giornali queste domande. Per un motivo solo: non ho mai avuto stima di Gianfranco Fini. E per dirla alla buona, del leader di Futuro e libertà non potrebbe fregarmene di meno. Sto parlando del Fini politico, non di quello privato. Una delle prime volte che ne scrissi fu sull'“Espresso” dell'11 marzo 1994, alla vigilia del voto che spalancò le porte del governo a Berlusconi. In quel momento Fini aveva 42 anni e, come segretario del Msi, veniva considerato l'alleato più fedele del Cavaliere. Anche Berlusconi non mi piaceva. Ma Fini mi piaceva ancora meno. Per cominciare, aveva una faccia sbirola, stramba, da seminarista frustrato. Con quel naso a proboscide che sembrava sempre sul punto di staccarsi. Il suo lento accento bolognese mi ricordava il “lasagne, lasagne!” che alla stazione ferroviaria di Bologna accoglieva i viaggiatori affamati di pasta con il ragù. Nessuna fiducia Diffidavo dei suoi doppiopetto di sartoria e delle esagerate cravatte rosa. Del suo look politico da giscardiano nazional-popolare. Del suo dichiararsi liberaldemocratico. Sotto queste spalmate di cerone, mi pareva di scorgere l'arroganza mentale dello squadrista rimasto a “Giovinezza, primavera di bellezza”. Il violento che non cambia mai, che non si smentisce, che sopravvive sotto ogni trucco. Fini si rivelò così nel corso della campagna elettorale. Durante un dibattito in tivù, ringhiò a Marco Pannella: «Sei un travestito della politica!». Il 2 marzo, in una puntata del talk show “Milano, Italia”, bastonò persino un alleato, Umberto Bossi, il capo della Lega. Lo dipinse così: «Mi ricorda Hitler chiuso nel bunker di Berlino: delirio di onnipotenza e propensione al suicidio». Questa sprezzante visione del mondo diverso da lui, si scioglieva come una lasagna al sole in un caso soltanto: davanti a Berlusconi. Nella campagna del 1994, Fini si rivelò più berlusconiano di Emilio Fede. Tanto che pensai: se non sta attento, si farà la pipì addosso per la felicità di essere al fianco del Cavaliere. Pipì gioiosa. Pipì di gratitudine per il Padreterno di Arcore che lo aveva tirato fuori dal sepolcro del neofascismo. Sedici anni dopo, la storia politica di Fini si è capovolta. La guerra dichiarata a Berlusconi, giorno dopo giorno, con una cattiveria senza pause. La sua inevitabile espulsione dal PdL. La nascita di un nuovo partito personale. L'inizio di un cammino verso l'ignoto, ma fatalmente diretto ad allearsi con i suoi avversari storici, le tante sinistre italiane. Mentre lo seguivo per obbligo di cronista, compresi di Fini più di una cosa. La prima era che non aveva la stoffa dell'ideologo o dello stratega, bensì soltanto quella del tattico. Capace di marciare con un ritmo costante, ma senza correre a rompicollo. E senza avere ben chiaro il traguardo d'arrivo. Me ne resi conto nel marzo del 2009, quando scrissi un lungo ritratto di Fini. A cominciare dai primi passi, quelli che a molti apparvero azzardati: il distacco dal mondo fascista in cui pure era cresciuto. Stranezze storiche Sto parlando del fascismo condotto al suo tragico epilogo: la Repubblica sociale italiana e la sconfitta nella guerra civile. Il padre di Fini, Argenio, classe 1923, era stato un volontario della Divisione “San Marco”. Un marò del generale Farina, il comandante di una delle quattro grandi unità addestrate in Germania e poi condotte in Italia per combattere i partigiani. Argenio Fini era scampato alle mattanze dei vincitori comunisti nel dopoguerra. Chi non aveva avuto la stessa fortuna era stato un cugino del padre. Quel parente si chiamava Gianfranco Milani e aveva vestito la divisa della Guardia nazionale repubblicana a Bologna. Il 26 aprile 1945 venne sequestrato dai partigiani rossi a Monghidoro, un comune della provincia. Da allora sparì nel nulla, come tanti altri militi fascisti. Aveva compiuto vent'anni da pochi giorni. E quando il futuro presidente della Camera nacque a Bologna, il 3 gennaio 1952, venne chiamato Gianfranco in memoria di quel ragazzo assassinato. Senza interrogatori, senza processo, senza niente di niente. Le mie ricerche sulla guerra civile mi hanno insegnato che, nel mondo dei vinti, non succede quasi mai che le vicende famigliari vengano annullate. È una costante che vale non soltanto per i fratelli e le mogli di chi ha perso la vita, ma anche per i figli, i nipoti, i pronipoti. Il sangue versato e il silenzio imposto dai vincitori rendono la memoria uno scudo infrangibile. I vinti non dimenticano. E quasi mai cambiano campo, anche quando arrivano a pensare che i loro morti abbiano pagato con la vita per una causa sbagliata. Fini non apparteneva a questa etnia. Da leader politico aveva imparato presto ad apprezzare due verità: il cinismo è una virtù e la gratitudine un peccato. Lo conferma il suo rapporto con Berlusconi, l'uomo che lo aveva sdoganato, avviandolo sulla strada del successo. Anche qui siamo nella preistoria del presidente della Camera. E vale la pena di spendere qualche riga su quanto accadde la bellezza di diciassette anni fa. Era il martedì 23 novembre 1993. Due giorni prima, a Roma si era votato per il sindaco. Fini, in quel tempo leader del Msi, aveva raccolto 619 mila voti, il 35,8 per cento, un record per il suo partito. Ma il candidato di centro-sinistra, Francesco Rutelli, l'aveva superato, sia pure di poco: 684 mila voti, il 39,6 per cento. Dunque si doveva andare al ballottaggio. Quel martedì, Berlusconi arrivò a Casalecchio di Reno, siamo sempre nella provincia rossa di Bologna. Doveva inaugurare un supermercato, roba sua. Il Cavaliere aveva compiuto da poco i 57 anni e vantava un fisico asciutto, non inquartato come oggi. Un cronista gli chiese per chi avrebbe votato al ballottaggio fra Rutelli e Fini. La svolta del Cav Silvio si aspettava la domanda. Non per nulla, erano presenti i tre telegiornali della Fininvest e un pattuglione di giornalisti. Senza esitare rispose: «Se abitassi a Roma, voterei per Fini. Il segretario del Msi rappresenta bene i valori del blocco moderato nei quali io credo: il libero mercato, la libera iniziativa, la libertà d'impresa. Insomma, il liberismo». Subito dopo, Silvio preannunciò la propria discesa nel campo della politica: «Se le forze moderate non si uniranno, dovrò bere io l'amaro calice». Cominciò a Casalecchio di Reno la seconda vita politica di Fini. Sempre meno fascista, sempre più antifascista. Grazie a una sequenza incalzante di strappi successivi che ho già rievocato più volte. Nel luglio 2010 li ho visti rammentati sul “Sole-24 Ore” da un eccellente storico, Miguel Gutor. Lui osservava, con ragione, che Fini aveva cannibalizzato più di un'idea guida della cultura progressista italiana. Dall'immigrazione all'integrazione degli extracomunitari, dall'antifascismo alla Resistenza. Nel marzo 2009, quando pubblicai un lungo ritratto di Fini, lui mi cercò al telefono per farmi un rilievo cortese. Allora gli dissi: «Non capisco, presidente, dove stia andando, strappo dopo strappo». Fini mi diede una risposta che mi lasciò di stucco: «Le confesso che non lo so neppure io». Oggi lo sa? Forse sì, forse no. Comunque sia, se fossi al posto del Cavaliere, l'avrei già mandato a insaccare il fumo. E andrei subito incontro alle elezioni anticipate. Certo, Berlusconi può vincerle o perderle. Ma nella lotta politica il bello è la presenza di questo rischio. Se non fosse così, il mestiere del cronista sarebbe il più noioso del mondo.