L'Editoriale
di Maurizio Belpietro
So che sorprenderò i lettori, ma stavolta ha ragione Gianfranco Fini. E pure Roberto Calderoli, Nichi Vendola, Fabrizio Cicchitto e tutti gli altri che hanno ricordato a Sergio Marchionne che la Fiat ha ricevuto dallo Stato una montagna di denaro, sotto forma di cassa integrazione e anche di contributi a fondo perduto. Chi ha fatto i conti degli aiuti incassati dall'azienda torinese è giunto a cifre che fanno paura e con le quali non solo si potrebbe fare una Finanziaria, ma avanzerebbero pure i soldi per ridurre un po' il debito pubblico. Si parla di oltre duecentomila miliardi di vecchie lire, vale a dire circa 100 miliardi di euro, parte dei quali è servita a realizzare gli stabilimenti nel Mezzogiorno e poi a tenerli aperti, al punto che a Melfi e dintorni sono stati più gli investimenti dello Stato che quelli degli Agnelli. Stabilito dunque che la Fiat è stata l'azienda più assistita d'Italia e che per favorirne la crescita, o forse la sopravvivenza, i diversi governi che si sono succeduti hanno fatto tutto ciò che era possibile e anche l'impossibile, come per esempio inventarsi il superbollo diesel per bloccare un mercato in cui la casa automobilistica italiana era debole. Preso atto che Romano Prodi ha svenduto l'Alfa ai piemontesi, evitando di cederla a prezzi più vantaggiosi agli americani, e poi ha favorito Fiat anche con la rottamazione. Oppure che in Italia si sono costruite più autostrade che ferrovie pur di fare un piacere a Torino. Insomma, dato per certo che tutto quanto si racconta a proposito del gruppo guidato da Sergio Marchionne sia vero e non si tratti di luoghi comuni, ora che si fa? Già, perché se è certo che la Fiat deve molto allo Stato, non è affatto sicuro che questa abbia l'intenzione o la possibilità di rendere quanto ha incassato. Gli utili, quando ci sono stati, hanno preso la via di altre tasche rispetto a quelle pubbliche e ora farsi restituire il malloppo è solo una pia illusione. Molti soldi se ne sono andati all'estero a rinforzare i patrimoni degli azionisti, come ha recentemente dimostrato la lite in famiglia tra gli eredi dell'Avvocato, altri sono stati semplicemente bruciati in operazioni sbagliate. Dunque, riaverli indietro con la forza è impossibile. E aspettarsi gratitudine per tutto quello che l'Italia ha fatto è da ingenui, perché le società per azioni hanno il solo obbligo di rispettare il codice civile, non quello del bon ton e nemmeno quello etico. Statalizzare, come qualcuno addirittura ventila, è poi una solenne sciocchezza, innanzitutto perché l'azienda ormai è una specie di multinazionale, con una forte presenza negli Usa, e dunque scoppierebbe un caso internazionale. E allora, come se ne esce? Purtroppo guardando in faccia l'amara verità. Se non si vuole che Marchionne faccia il suo dovere, il quale consiste nel produrre più macchine al minor prezzo, dunque scegliendo i luoghi più convenienti e più flessibili, c'è un'unica via: prepararsi a mettere mano al portafogli. Se il presidente della Camera non vuole che l'amministratore delegato del gruppo dica che l'Italia è un peso per la Fiat, o mette in condizione il manager di lavorare senza zavorra o decide che di quella zavorra si fa carico lo Stato. Un'azienda che più del conto economico tiene conto della politica, di ciò che è popolare e di quel che non lo è, poi passa alla cassa. È ciò che è accaduto negli ultimi quarant'anni con la fabbrica degli Agnelli. Se Fini vuole che l'andazzo continui, non ha che da insistere a chiedere a Marchionne di essere più italiano e meno canadese. Proprio come ha fatto ieri.