L'editoriale
di Fausto Carioti
Politico abile o gran biscazziere a seconda dei gusti, quello visto ieri è comunque un Silvio Berlusconi capace di giocare in modo spregiudicato su più tavoli, uscendone vincitore in mezzo alle urla dell'opposizione. Leggi per sfilarsi dalle grinfie delle procure, alleanze per le regionali, rapporti col Vaticano: in ognuna di queste partite, un premier molto più incline alla pugna che alle logiche del partito dell'amore (come conferma anche il suo attacco ai magistrati schierati come «plotoni di esecuzione» contro di lui) ha messo i presupposti per passare all'incasso nelle prossime settimane. Del resto, la giornata era iniziata con il sondaggio apparso sul sito del quotidiano “nemico” per eccellenza, Repubblica, che dava la fiducia degli italiani nei confronti di Berlusconi al 48%, inchiodata all'ottimo livello raggiunto dopo l'aggressione di piazza Duomo. Il Pd, nel frattempo, è crollato di 4 punti e ha la fiducia solo del 37% degli italiani: 9 punti in meno del PdL. Per il Cavaliere la campagna elettorale per le regionali si apre così sotto i migliori auspici. Lo stesso non si può dire di Pier Luigi Bersani. Sulla giustizia, cioè sui provvedimenti che più stanno a cuore al premier, il vento che tira in favore di Berlusconi è più forte di quanto creda il centrosinistra. Sconfitta in Parlamento sul disegno di legge per il processo breve - e umiliata dai suoi stessi senatori che in segreto hanno votato per il provvedimento - l'opposizione punta adesso sulle solite due carte per far cucinare il premier dai tribunali. La prima carta sono i finiani che, d'intesa col Quirinale, si preparerebbero a ostacolare la norma sul processo breve a Montecitorio. La seconda carta è la Corte Costituzionale, che dovrebbe affossare il processo breve qualora questo fosse approvato. Ma sono pallottole destinate, per motivi diversi, a mancare il bersaglio. La pistola dei finiani, intanto, non sparerà. Se l'opposizione crede davvero, come ha scritto ieri Repubblica, che «la brutta sorpresa è già dietro l'angolo» perché il processo breve «non piace per niente ai finiani», farà meglio a ricredersi. Lo si è visto già ieri al Senato. Che non sarà Montecitorio, dove Gianfranco Fini è presidente e può contare su trenta-quaranta deputati. Ma a palazzo Madama c'è pur sempre una dozzina di fedelissimi dell'ex leader di An. I quali, sia nelle votazioni segrete di martedì, sia nel voto finale e palese di ieri, hanno votato compatti con il resto del partito. E va bene che in politica si vede di tutto, ma sarebbe inspiegabile che i finiani della camera bassa si comportassero in modo opposto a quelli della camera alta. Discorso diverso per il giudizio di costituzionalità sul processo breve, o «processo certo», come piace chiamarlo ai berlusconiani. Che la Consulta possa affossare la legge che accorcia i tempi dei processi e cancella quelli più pericolosi per il premier è eventualità che, anche a palazzo Grazioli, danno per assai probabile. E non si esclude nemmeno un intervento di Giorgio Napolitano, i cui tecnici stanno studiando il testo. Ma se Berlusconi ostenta tranquillità è anche perché l'arma su cui punta davvero il Cavaliere, che nelle correzioni improvvise di rotta ormai è un maestro, non è il processo breve, ma il legittimo impedimento. Ovvero la norma, concordata con l'Udc, che sospende i processi per il presidente del Consiglio e altre cariche dello Stato, per farli ricominciare al termine del loro mandato. E infatti adesso Berlusconi intende far varare questo provvedimento dal Parlamento prima del processo breve. Il testo del legittimo impedimento, ora a Montecitorio, potrebbe così avere l'approvazione definitiva a palazzo Madama negli ultimi giorni di febbraio. Mentre il processo breve, che il Quirinale giudica la norma più controversa, resterebbe congelato, pronto a uscire dal freezer solo se e quando il legittimo impedimento dovesse essere dichiarato incostituzionale. E il giorno in cui tutte e due le leggi fossero state bocciate dalla Consulta, dovrebbe essere giunta in dirittura d'arrivo una delle due norme su cui Berlusconi punta davvero, cioè il lodo Alfano in versione costituzionale o il ritorno all'immunità parlamentare come prevista nel testo originario dell'articolo 68 della Costituzione. Insomma, gli assi nella manica al gambler Silvio non mancano. Del resto, Dio è con lui. O quantomeno è con lui il Vaticano. Ieri monsignor Camillo Ruini - surrogando il presidente della Cei Angelo Bagnasco e il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone - ha incontrato Berlusconi, assieme a Gianni Letta, per invogliarlo a non lasciare per strada l'Udc. La diplomazia vaticana è preoccupata per quanto accade nel Lazio, dove è candidata per il Pd la radicale abortista Emma Bonino. Qui, più che altrove, l'idea di spaccare il fronte politico che difende la vita e la famiglia è giudicata nefanda dal Vaticano. Che poi è anche quello che pensa Berlusconi, solo che non può dirlo a voce alta, perché l'Udc è anche il partito che vuole seppellire quel bipolarismo di cui lui è l'alfiere. Così, nonostante i mal di pancia di tanti forzisti laziali nei confronti della candidata finiana Renata Polverini, Berlusconi ha deciso di confermare l'alleanza del PdL con l'Udc, mascherandola da decisione democraticamente adottata dai dirigenti del suo partito. Ragionamento cinico quanto vogliamo, ma comunque impeccabile: meglio vincere le elezioni con la benedizione di Santa Romana Chiesa che perderle e rischiare l'inferno.