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Chi può far cadere il governo dopo l'intesa tra Berlusconi e Renzi

Enrico Letta

Andrea Tempestini
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Nelle leggi elettorali, più che altrove, il diavolo si nasconde nei dettagli. I dettagli dell'intesa raggiunta tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi non sono ancora noti: il segretario del Pd ha assicurato che diventeranno ufficiali solo domani, quando si riunirà la segreteria del partito. Quanto ai principi enunciati da Renzi, sono degni della Sibilla Cumana: il sindaco di Firenze ha detto che con Berlusconi c'è «profonda sintonia » per «una legge che favorisca la governabilità e il bipolarismo e che elimini il potere di ricatto dei piccoli»; gli stessi piccoli, però, sono bene accetti al tavolo dei lavori, aperto «al contributo di chi vorrà starci». Vuol dire che, nonostante tutto, Renzi e Berlusconi non hanno raggiunto un'intesa definitiva.  Che non esiste ancora un testo blindato e che in queste ore Renzi, assieme al politologo Roberto D'Alimonte, potrà apportare alla bozza quelle “limature” capaci di fare la differenza tra una proposta di legge che fa esplodere la maggioranza e una che, bene o male, mette d'accordo tutti gli interessati. Vuol dire, anche, che il governo non è fuori pericolo, e rischia ancora di saltare. Lo conferma la cautela con cui, da palazzo Chigi, ieri sera sono filtrati i commenti di Enrico Letta: l'incontro tra Renzi e Berlusconi «pare andare » nella giusta direzione, ha detto il premier, che ha subito ribadito la necessità di tenere insieme «le forze della maggioranza e i principali partiti dell'opposizione». Insomma, come avvertono nello staff del vicepremier Angelino Alfano, «la partita è ancora apertissima».  Per questo la minaccia di far cadere il governo resta sempre valida. E gli alfaniani non sono i soli a sventolarla. Da quando la Corte Costituzionale ha scritto di proprio pugno una legge elettorale che consente di andare immediatamente al voto, tutto è cambiato. La minoranza del Partito democratico, spinta sull'orlo della scissione dalla volontà di Renzi di avere una legge che gli consenta di escludere gli avversari interni dalle prossime liste elettorali, e i due partiti minori della coalizione di governo, Nuovo Centrodestra e Scelta Civica, adesso hanno una forte convenienza a far terminare la legislatura, se l'alternativa è una legge elettorale che li condanna all'irrilevanza. Il “Consultellum” (come è stato ribattezzato il testo elaborato dai giudici costituzionali) garantisce infatti a tutti costoro un'ottima rappresentanza nel prossimo Parlamento. Difficile, del resto, dare loro torto quando sostengono che un accordo ai loro danni tra il sindaco di Firenze e il Cavaliere sancirebbe la fine dell'attuale maggioranza.  Insomma, Renzi ha ottimi motivi per non provocare terremoti. Dal sistema proporzionale introdotto dalla Consulta verrebbe fuori infatti un Parlamento ancora più frantumato di quello attuale. La media dei sondaggi di dicembre assegna al Pd il 32% delle intenzioni di voto, a Forza Italia il 21,4% e ai Cinque Stelle il 21,1%. Se si votasse oggi col proporzionale, queste stesse percentuali, appena approssimate per eccesso, dovrebbero essere le stesse dei seggi del prossimo Parlamento. Tolti dall'equazione i grillini, che non hanno alcuna voglia di allearsi con chicchessia, l'unico governo possibile sarebbe l'ennesi - mo esecutivo di larghe intese, figlio di un accordo tra Pd e Forza Italia. E cioè tra Berlusconi e Renzi. Vero: il Cavaliere non avrebbe il controllo delle Camere e non si sbarazzerebbe del Nuovo Centrodestra (sua spina nel fianco), ma sarebbe comunque decisivo per la sopravvivenza del governo.  Da una situazione simile, in altre parole, Berlusconi avrebbe molto da guadagnare. Anche perché, per uno che poche settimane fa sembrava per sempre fuori dai giochi, sarebbe comunque una vittoria. Ma Renzi? Dal voto anticipato con il proporzionale il segretario del Pd otterrebbe in regalo un parlamento fotocopia di questo, anzi se possibile peggiore (in quello attuale, grazie al deprecato Porcellum, i Democratici controllano almeno Montecitorio). La sua ambizione di andare a palazzo Chigi sorretto da una maggioranza di sinistra compatta e identificata in lui, svanirebbe. Dovrebbe scegliere tra guidare un governo in coabitazione con Forza Italia, quindi sgradito agli elettori del Pd e soggetto ai diktat di Berlusconi, o lasciarne il timone a un'altra figura, come è stato costretto a fare il povero Pier Luigi Bersani con Letta. In ogni caso, l'uomo che doveva rivoluzionare la politica italiana finirebbe anzitempo in salamoia. La prudenza mostrata ieri dopo l'incontro con Berlusconi e la decisione di non blindare il testo delle riforme, probabilmente, si spiegano anche così. di Fausto Carioti 

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