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Fassino: "Giusto trattare con Berlusconi"

Lucia Esposito
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Piero Fassino, lei è stato tre volte segretario dei Ds. È quello che ha traghettato il partito nel Pd. Eppure nell'organigramma attuale dei democratici non c'è traccia del suo nome. Non si può dire che i compagni le siano stati riconoscenti… «Ho le mie ambizioni, ma non ho mai finalizzato le mie scelte agli incarichi. Quando ho scelto di portare i Ds nel Pd sapevo benissimo che il primo segretario del Pd non avrebbe potuto essere l'ultimo dei Ds». Ciononostante lei… «Lavorai con grandissima passione alla fusione. Anzi, rivendico che senza la mia determinazione il Pd non sarebbe mai nato». Lei è stato il primo ex comunista ad abbracciare Renzi. Opportunismo? «Coerenza con la mia storia. Aderii con convinzione alla svolta della Bolognina, perché condividevo con Occhetto la consapevolezza che era necessaria una fase nuova. Quando mi candidai alla segreteria dei Ds, nel 2001, lo feci con lo slogan “O si cambia o si muore”». Ma cosa può avere lei in comune con un ex democristiano? «Renzi interpreta bene quella che è sempre stata la mia idea di sinistra. Quando fui eletto segretario dei Ds, nel 2001, dissi: io credo in una sinistra che non ha paura di misurarsi con il mondo che cambia». Fatto sta che voi ex Pci avete consegnato il partito a un ex scout Dc. Non lo reputa un fallimento? «Affatto. Il Pd è nato per dare all'Italia un grande partito che interpretasse i valori di progresso e liberazione e Renzi li esprime pienamente, tant'è che è con lui che il Pd ha preso oltre il 40%. E in lui si identificano tantissimi come me che vengono da una storia di sinistra». Appunto, nessuno di voi c'era mai riuscito prima. Come mai? «Io ho fatto il Pd per superare il 40%, ma non sta scritto da nessuna parte che bisognava arrivarci il primo giorno. Senza la decisione dei Ds e della Margherita di fondersi, il Pd non sarebbe mai nato. E come un neonato, nei suoi primi anni di vita non poteva che essere fortemente dipendente da chi lo aveva generato. Oggi il Pd è nella fase dell'adolescenza e afferma la propria indipendenza dai genitori, con i quali qualche volta può anche essere in conflitto». Alla faccia del conflitto: Renzi prima ha rottamato i genitori, poi ha ucciso l'ex vicesegretario del Pd per prendere il suo posto a Palazzo Chigi. «Io sono uno dei pochi che, nei giorni difficili in cui si è arrivati al cambio di Letta al governo, gli ha espresso gratitudine, perché Enrico si è caricato l'incombenza di guidare il Paese in un momento difficile e ha dovuto fare scelte impopolari. Ma quell'esperienza si stava consumando rapidamente nel rapporto con l'opinione pubblica». Quindi ha fatto bene Renzi a farlo fuori dopo avergli detto «stai sereno»? «Non è che ha fatto bene… ha preso atto che c'era una consunzione di credibilità. Non di Letta come persona, ma della sua esperienza di governo. E se non s'interveniva con un fattore di rottura, quella situazione sarebbe degenerata ulteriormente pregiudicando non solo un governo, ma una prospettiva politica. Ho fatto il segretario di partito per sette anni e so bene che ci sono momenti in cui un leader è chiamato a fare scelte difficili, che passano anche per qualche ingiustizia umana. Lo dico avendole anche vissute sulla mia pelle». Quali? «Sapevo di non poter essere il primo segretario del Pd mentre lo stavo costruendo. Questo era certo ragione di sofferenza personale, ma non ha ridotto il mio impegno nel far nascere il nuovo partito. E dopo, nel 2006, sarebbe stato del tutto lecito che chi aveva guidato il partito vincendo le elezioni per cinque anni andasse al governo con Prodi. Infatti ero in predicato di fare il vicepremier o il ministro degli Esteri. Ma mi fu chiesto di guidare i Ds verso il Pd e dovetti fare una rinuncia. Anche in quel caso fu una scelta difficile e sofferta, ma c'era una ragione politica che la motivava». Non siete cambiati. Nel Pci era prassi che si arrivasse alla segreteria per decapitazione del leader in carica: D'Alema versus Occhetto, Occhetto versus Natta... «Quando il nostro gruppo dei giovani dirigenti del Pci guidati da Occhetto dovette operare il passaggio, fu doloroso. Un vero trauma, anche nei rapporti personali tra loro due e tra Natta e noi. Ma fu necessario, perché ci accorgevamo che il partito stava pericolosamente riducendo il suo credito». Siete stati voi a costruire il percorso che ha portato il centrosinistra italiano nel Pse. Non le ha dato fastidio vedere Renzi sul palco prendersi tutti i meriti? «Al contrario, lo considero anche un mio successo. L'atto iniziale del percorso che ha portato Renzi a diventare un leader dei socialisti europei fu il congresso di Oporto del 2006, nel quale io ottenni che lo statuto del Pse venisse cambiato. E fui sempre io a negoziare, assieme a Franceschini, l'Ingresso degli europarlamentari del Pd nel gruppo socialista a Strasburgo. Quindi le prime tappe mi hanno visto protagonista. Perché dovrei essere geloso di un esito positivo?». Berlusconi era un leader semimorto, Renzi lo ha riesumato. Ha fatto bene? «Berlusconi ha dimostrato nel tempo che un pezzo di società italiana s'identifica in lui. Il suo grado di legittimazione gli deriva da questo, non dal fatto che Renzi gli parli». Quando lei era segretario del Pds incontrava spesso il Cav? «Molte volte». Anche lei è stato ad Arcore? «Certo. Sono andato anche a trovare Berlusconi a Palazzo Chigi, al gruppo del Pdl alla Camera e pure a casa di Gianni Letta». Com'erano i rapporti tra voi? «Berlusconi è un seduttore, stabilisce un rapporto umano che non è certo freddo o diffidente. Ho sempre avuto una buona interlocuzione con lui. Sulla riforma elettorale eravamo quasi arrivati a un'intesa nel 2006 sul Mattarellum corretto...». Che, al pari della Bicamerale di D'Alema, andò male… «L'accordo sul Mattarellum non si fece perché alla fine lui non se la sentì. E io rispettai la sua scelta». Lei avrebbe invitato Berlusconi al Nazareno? «Non so se ne avrei avuto la forza, ma apprezzo che l'abbia avuta Renzi. Ha dimostrato di non avere nessuna forma di subalternità e ha privilegiato la sostanza alla forma». Al posto di Renzi lei sulle riforme privilegerebbe il rapporto con Verdini o con Vendola? "Un adagio che imparai quando facevo politica estera dice che la pace si fa col nemico e l'interlocutore non te lo scegli tu. Se l'accordo lo fai con Fi, poi se viene Verdini o altri a trattare non sei tu che lo decidi, ma Berlusconi. Il problema però non è interloquire con chi, ma su cosa. Gli emendamenti che propone Vendola stravolgono parecchio l'idea di riforma del Senato che il Pd propone». Ha stupito molti che Renzi preferisca il Caimano alla sinistra. «Quello che stupisce me è l'intransigenza di Sel, che presenta oltre seimila emendamenti». Anche Renzi sta mostrando intransigenza nel voler arrivare subito al Senato non elettivo, che molti giustificano con la sua intenzione di andare subito al voto. «Non so se lui abbia in mente questo. Credo che il suo intento sia innanzitutto dimostrare che è in grado di fare una riforma necessaria». Intanto Marchionne trasloca la Fiat all'estero. Il primo che dovrebbe arrabbiarsi è il sindaco di Torino. Perché lei sta zitto? «Perché non è vero. La ex Bertone, fabbrica di carrozzerie di nicchia, ha chiuso nel 2006: 1.300 lavoratori, dopo la cassa integrazione e la mobilità, non avevano più prospettiva di ricollocazione. Due anni fa la Fiat l'ha comprata e c'ha portato la Maserati: entro la fine di quest'anno in quello stabilimento lavoreranno 3.000 dipendenti. Una settimana fa sono stato a Mirafiori: dove c'erano le presse che stampavano le lamiere è stato fatto il nuovo centro di progettazione di tutto il gruppo. Vi lavorano 1.500 impiegati. E lì accanto c'è uno stabilimento in cui lavorano ancora 18mila persone». Però oggi si chiama Fiat-Chrysler e produce soprattutto in Usa. «Intanto è la Fiat ad aver comprato Chrysler e non viceversa. Da sole queste due aziende sarebbero già chiuse. Invece hanno costituito un player mondiale che ha stabilimenti anche a Melfi, a Cassino, in Val di Sangro. Quindi la Fiat non se ne va né dall'Italia né da Torino». Al pari di D'Alema e Letta, lei è uno dei dirigenti del Pd più stimati all'estero. Ma perché per le nomine europee Renzi propone chiunque tranne voi? «È giusto lasciare a un premier il diritto di fare le scelte che ritiene migliori per il suo Paese e per l'Europa». Dove la candidatura della Mogherini è ritenuta troppo debole. «È probabilmente penalizzata dalla giovane età e dal fatto che è ministro degli Esteri da soli 4 mesi. Invece si occupa di politica estera almeno da una quindicina d'anni. Ha lavorato per anni nel dipartimento internazionale del partito, nel Pse, è membro dell'assemblea parlamentare della Nato e del Consiglio d'Europa. Quindi ha avuto tutto il tempo di maturare un sistema di relazioni. La Mogherini l'ho cresciuta io. La considero una figlia». Non sarebbe stato più titolato lei di sua “figlia” a fare Mr Pesc? «Tutti sanno che ho dedicato una buona parte della mia vita politica alla sfera internazionale come parlamentare, ministro, inviato speciale dell'Ue e come leader dei Ds e del Pse. Ma fortunatamente non sono l'unico e il Pd è ricco di personalità che hanno esperienza e credito internazionali». Lei, Letta e Veltroni avete lavorato tanto per il centrosinistra. Chi di voi è più titolato per il Quirinale? «Non mi faccio tirare in questa trappola». Non ha mai buttato un occhio al Colle? Barbara Romano

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