La mesta parabola: da rottamatore a reggi-microfono di Bersani
Un'occasione perduta per il sindaco di Firenze: così Matteo si è fatto fregare dal segretario e dalla vecchia nomenklatura del Pd
di Fausto Carioti Tra grande rottamatore dell'oligarchia del Pd e spalla servizievole di Pier Luigi Bersani ci sono almeno cinquanta sfumature di rosso. Renzi le ha saltate tutte assieme, passando da un estremo all'altro per lo sconforto di tanti che avevano creduto in lui (e magari avviando così la propria disgrazia politica, ma questo Matteo ancora non lo sa). La vulgata dentro al partito dice che tra i due c'è un solido accordo: il segretario va a Palazzo Chigi e la prossima volta toccherà al sindaco di Firenze guidare la corsa. Bersani intanto usa il trentottenne ex avversario per contendere qualche elettore moderato a Mario Monti e per tenere nel recinto le giovani generazioni, insofferenti verso le parole d'ordine e la nomenclatura dell'ex Pci. Soccorso che i sondaggisti ritengono indispensabile per un Pd scopertosi in affanno. L'aiuto di Renzi a Bersani, secondo i calcoli di Nicola Piepoli, «potrebbe alla fine significare anche un 4% in più. Una presenza attiva come la sua dovrebbe rappresentare una sorta di energetico per Bersani e il Partito democratico. E potrebbe funzionare anche più di quanto possa fare, in negativo, la vicenda del Monte dei Paschi di Siena». Lo scambio, assicurano però gli uomini del segretario, conviene anche a Renzi, che si ritaglia una dimensione da politico vero e quindi realista, per non dire cinico. Vista così, la sottomissione al segretario rappresenta un rito iniziatico necessario per segnare il passaggio all'età adulta ed entrare a pieno titolo nel gruppo dei “grandi”, cui dovrebbe seguire la staffetta con Bersani, che nel frattempo l'ha già fatta annusare a Renzi: «Io faccio un giro e mi fermo, lui è giovane e ha ancora tanta voglia di andare avanti». Insomma, il ragazzo sogna di caricare il proprio software social e trendy sul vecchio hardware uscito dalle officine livornesi nel 1921, e quelli ce lo fanno credere. In politica, però, più che le speranze e le mezze promesse contano i fatti. Questi dicono non solo che Bersani è per ora l'unico a guadagnare dall'accordo, mentre Renzi, rimasto docile in quel partito che voleva ribaltare, ha rinunciato a capitalizzare altrove il grande consenso ottenuto (il che sarebbe pure normale, visto l'esito delle primarie). Ma dicono anche che Renzi si è spinto oltre: l'innovatore che voleva portare la distruzione creativa dentro al Pd non c'è più. L'eretico ha baciato la pantofola del Papa e si è schierato in prima fila tra i custodi dell'ortodossia (e questo è molto meno normale). L'autodafé del sindaco di Firenze non poteva che avere per argomento il caso Mps. Renzi era quello che, quando fu accusato di frequentare gli infrequentabili finanzieri delle isole Cayman, rinfacciò al segretario «esempi di meccanismi della politica che non hanno funzionato: dal Monte dei Paschi e Banca 121 ad Antonveneta». Renzi corse a Siena per dire che la sinistra di Bersani e Massimo D'Alema «non può fare le pulci agli altri senza fare un esame di se stessa. Non parlo solo del Monte dei Paschi, parlo anche del governo D'Alema quando accolse e incoraggiò la scalata a Telecom di quelli che chiamò “i capitani coraggiosi”». E adesso che lo scandalo Mps è scoppiato sul serio? Il nuovo Renzi accucciato, esibito l'altra sera sul palco di Firenze, non morde più. Nemmeno prova a ringhiare. Appena il comizio dei due è entrato nell'ineludibile argomento Mps, si è tirato indietro per porgere il microfono a Bersani: «Sarà il segretario a parlarne...». Applausi mesti dalla platea renziana, che si chiedeva se la metamorfosi fosse occasionale o definitiva. Consiglio non richiesto al sindaco: se davvero ha accettato di omologarsi confidando nella promessa che al prossimo giro toccherà a lui, si faccia dare solide garanzie da Bersani e soprattutto da D'Alema. Politico di buone letture, Renzi dovrebbe ricordare che l'ultimo bimbo toscano che si è fidato della parola di due personaggi simili è finito in un libro di Carlo Collodi.