L'Unità e la chiusura: tutta colpa di Antonio Gramsci
Se da domani l'Unità non sarà più in edicola, la colpa (postuma) è del suo fondatore: il progetto gramsciano di egemonia culturale è riuscito a tal punto da rendere superfluo un quotidiano ormai omologato a tutti gli altri, con eccezioni rarissime. Da punta più avanzata d'un nuovo ordine sociale a violino di fila del governo Renzi: le prime parti, da qualche decennio, sono affidate a Corriere e Repubblica; perfino l'Osservatore romano era più rivoluzionario. Una parabola cominciata negli anni Settanta, quando il Manifesto e Lotta Continua, nati il primo come mensile, l'altro come quindicinale, presero a uscire ogni giorno: l'Unità, da allora, ebbe la parte del foglio conservatore. A illuminarne le pagine c'erano i corsivi fulminanti di Fortebraccio, al secolo Mario Melloni, ma il resto era impregnato di grigiore brezneviano: articolesse indigeribili, al cui confronto le prediche domenicali di don Eugenio Scalfari appaiono quasi sbarazzine; a onor del vero, però, erano scritte in buon italiano, con rari cedimenti al sessantottese stretto della stampa extraparlamentare, infarcita di misure in cui, livelli a monte e discorsi da portare avanti, dove un marx-leninismo piegato in trotzkismo baroccheggiante discettava, per esempio, di «re-inventare una nuova cultura politica che fosse adeguata alla dirompente individuazione dell'operaio-massa come referente collettivo». Le prose vergate nel rispetto dell'ortodossia apparivano assai più rassicuranti, così come l'operaio iscritto alla sezione Ho Chi Minh dell'Alfa Romeo, che varcava l'ingresso della fabbrica con la copia dell'Unità sottobraccio, testimoniava un'antica saggezza proletaria opposta ai radicalismi velleitari del movimentismo che giocava alla rivoluzione. Bei tempi: la sintassi ancora non si era scoperta democratica e il congiuntivo resisteva anche nei «ciclinproprio» dei volantini distribuiti ai picchetti davanti ai licei okkupati. Il vero colpo di maglio era stato tuttavia l'arrivo di Piero Ottone in via Solferino. La borghesia aveva cambiato cavallo: liberale fino alla grande guerra, aveva guardato con benevolenza al fascismo e poi accettato la Dc, con la quale faceva affari; finalmente, con festoso outing, si era dichiarata comunista. La nascita di Repubblica, nel 1976, aveva sancito che erano i padroni a condurre la lotta di classe. Il Cipputi, giustamente, diffidava: si teneva stretta la tessera del partitone e leggeva il quotidiano di riferimento, ma con sempre minor entusiasmo per l'uno e l'altro. Nel 1953, quando morì Stalin, l'Unità titolò: «Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell'umanità». Nel 1989, alla caduta del Muro di Berlino, il direttore d'allora, Massimo D'Alema, scoprì quanto fosse breve l'eternità: «Il giorno più bello d'Europa», questo fu il suo titolo. Era l'annuncio della grave malattia giunta ora al suo esito. D'improvviso, gli ex e postcomunisti s'accorsero che le ideologie erano anticaglie impossibili da rinfrescare; il politicamente corretto s'impose quale nuova ortodossia, pervasiva e censoria quanto la precedente, ma ben più insidiosa. In compenso, si finse di non sapere che non erano stati i borghesi a diventare di sinistra, ma la sinistra a diventar borghese. Abituato a prendere ordini da Mosca, seppure con qualche resistenza, il Pci-Pds-Ds-Pd cambiò padrone: a dettare la linea erano e sono banchieri, grandi industriali e alti burocrati; l'internazionalismo marxista cedette il posto alla globalizzazione finanziaria, il ruolo guida un tempo esercitato dal Pcus passò alla Trilateral, al Gruppo Bilderberg e a Goldman Sachs. Per l'Unità non c'era più posto. L'antiberlusconismo, in cui ebbe un ruolo di complemento, ne ha posticipato l'agonia. Le tocca una sorte simile al Secolo d'Italia: non appena An giunse al governo, nel 1994, Alfredo Mantica avvertì la redazione: «Ragazzi, da oggi siamo noi i pennivendoli di regime». Lo stesso è accaduto, con un po' di ritardo, al quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Per gli ossequi al potere, ci sono ben altre tribune. di Renato Besana