Il miracolo

Antonio Socci: "Il rosario di massa della Polonia contro l'islam. Chiudiamo i confini, ripartirà l'economia"

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Eliana Giusto

Ieri, in Polonia, un milione di persone, assiepate lungo tutti i confini nazionali, hanno recitato insieme un immenso rosario popolare. L'iniziativa - ignorata dal Vaticano - è stata chiamata: «Rosario al confine». Nel Paese di Karol Wojtyla le frontiere sono sentite ancora come importanti: per difenderle sono morti tanti polacchi. Lì le parole «patria» e «identità nazionale» (e quindi interesse nazionale) non sono ritenute «bestemmie», come purtroppo sta accadendo da noi. Lì orientano le scelte dei governi. È stata una grande preghiera popolare sui confini spirituali, culturali e materiali della nazione. Il confine spirituale è quello della lotta contro il male per raccogliere l'invito alla conversione della Madonna di Fatima a cento anni da quelle apparizioni. L' iniziativa infatti si richiamava proprio al centenario di Fatima dove risuonò la profezia dell'irrompere del comunismo in Russia e poi della seconda guerra mondiale che stritolò la Polonia fra i due totalitarismi (nazista e comunista). Proprio alla Madonna di Fatima fu tanto legato il grande papa polacco che - insieme al suo popolo - ha avuto un ruolo enorme nel crollo incruento e pacifico del comunismo in tutto l'Est europeo. I CONFINI CRISTIANI - L'altro anniversario celebrato dal grande rosario polacco è quello del 7 ottobre 1571: la battaglia di Lepanto che fermò sul mare l'impero ottomano e l'invasione islamica dell'Europa. Fu papa san Pio V, che organizzò la coalizione degli Stati cristiani, a proclamare il 7 ottobre festa di Nostra Signora della Vittoria, poi intitolata alla Madonna del Rosario. È alla sua intercessione infatti che la Chiesa attribuisce la salvezza dell'Europa. Un secolo dopo i turchi ci riproveranno via terra e arriveranno fino a Vienna. In quella circostanza a sbaragliare le truppe musulmane, salvando l' Europa dall'islamizzazione, fu proprio il re polacco Giovanni III Sobieski. Perciò quei confini su cui ieri il popolo polacco ha voluto pregare definiscono l'identità culturale e cristiana della nazione. Sono anche confini materiali che proteggono l'integrità e la sovranità dello Stato polacco. Vale la pena di ricordare che la Polonia, nell'Unione Europea, è uno dei Paesi che più resiste alla de-sovranizzazione della tecnocrazia di Bruxelles. Come resiste all'ideologia migrazionista che vorrebbe riempire l'Europa di popolazioni musulmane.  Proprio il fatto che in Polonia si dia il primato all'identità nazionale e all'interesse nazionale porta poi risultati positivi, dal momento che la Polonia - a differenza dell'Italia - ha oggi un'eccellente crescita del Pil del 3,9 per cento (noi ce la sogniamo), un rapporto debito pubblico/Pil fantastico, al 54,4 per cento (noi siamo al 132 per cento) e la disoccupazione è precipitata al livello minimo dal crollo del comunismo.  Guarda caso infatti la Polonia non ha l'euro, ma ha tuttora la sua moneta nazionale, lo zloty, e questa sua prosperità ha uno stretto collegamento con la sua sovranità monetaria. La Polonia può così permettersi di fare politiche demografiche molto attive (per far risalire la natalità) e in questi giorni sta pure abbassando l'età pensionistica (60 anni per le donne e 65 per gli uomini). Dimostrando così che le dissennate politiche dell' Unione europea, che puntano alla demolizione degli Stati nazionali e dello Stato sociale, hanno un' alternativa vincente. La Polonia non sta ai diktat di Bruxelles. Non a caso la sintonia del presidente americano Trump con la Polonia è emersa subito nel suo viaggio a Varsavia del 6 luglio 2017 dove tenne un discorso importante, che colpì molto i polacchi, in difesa del diritto alla vita e alla libertà, in difesa della civiltà occidentale: «La domanda fondamentale dei nostri tempi è se l'Occidente ha la volontà di sopravvivere. Abbiamo sufficiente fiducia nei nostri valori da difenderli a qualsiasi costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini da proteggere i nostri confini? Abbiamo il coraggio di preservare la nostra civiltà di fronte a chi vorrebbe sovvertirla e distruggerla? / La nostra battaglia per l'Occidente non comincia sui campi di battaglia, ma nelle nostre menti e nei nostri cuori, nelle nostre volontà e nelle nostre anime». Trump concluse: «La nostra libertà, la nostra civiltà e la nostra sopravvivenza dipendono da questi legami di storia, di cultura e di memoria. / Quindi, insieme, combattiamo tutti come i polacchi: per la famiglia, per la libertà, per la Patria, per Dio». Ma la Polonia non è un caso isolato. Ci sono altri Paesi che dimostrano come l' identità, il patriottismo, la difesa dell' interesse nazionale e dei valori della civiltà occidentale siano anche la leva che permette di evitare il declino, l'impoverimento e il crollo demografico. Giulio Meotti, nel suo splendido libro La fine dell' Europa. Nuove moschee e chiese abbandonate (Cantagalli) racconta il caso di Israele (non a caso anche Israele, come la Polonia, è malvisto in Europa). Dunque Meotti parla del «Miracolo di Israele» e ne descrive i record: «in trent'anni, il suo prodotto interno lordo è aumentato del 900%; la pressione fiscale è scesa dal 45 al 32%; gli aiuti americani erano il 10% del PIL, mentre oggi solo l'1%; le esportazioni sono aumentate dell'860%; trent'anni fa Israele non aveva fonti indipendenti di energia, mentre oggi il 38% proviene dalle proprie risorse; e se non c'era acqua desalinizzata trent'anni fa, oggi oltre il 40% dell'acqua consumata proviene da impianti di desalinizzazione». A questo si aggiunga che «i tassi di mortalità in Israele sono i secondi più bassi dell'Ocse» e che - stando al Wall Street Journal, «Israele è il secondo paese più colto del mondo» (cosa che la dice lunga sulla qualità dell' istruzione. Va pure detto che «l' aspettativa di vita di 82 anni è la più alta in Asia occidentale. Con gli indicatori di salute tra i primi dieci paesi al mondo».  Tutto questo in un Paese che fin dalla sua fondazione, settant'anni fa, è stato costretto a vivere in un clima di guerra, blindato, e che ha pagato non solo economicamente, ma anche in termini di vite umane un prezzo altissimo, rimanendo un Paese libero e democratico, un' eccezione in tutto il Medio Oriente. Ma la cosa che rende ancora più straordinario questo Paese di cultura occidentale e di frontiera con l'oriente, è il tasso di fertilità, in totale controtendenza rispetto all'Europa: è di 3,11 figli per donna nell'ultimo anno di cui sono resi noti i dati. «In meno di vent'anni» scrive Meotti «il numero annuo di nascite fra gli ebrei israeliani è salito del 65%, passando dalle 80.400 nascite del 1995 alle 132.000 del 2013 Un incredibile balzo in avanti, mentre il tasso di natalità fra gli arabi è molto diminuito».  Cosa questa che fa crollare il teorema di alcuni decenni fa secondo cui «gli arabi fanno più figli degli ebrei e se non si crea uno stato palestinese indipendente, una bomba a orologeria demografica trasformerà Israele in un apartheid sullo stile dei sudafricani». Teorema sbagliato. Spiega Meotti che «tale prospettiva certamente sembrava reale quando il processo di pace di Oslo ha avuto inizio nel 1990 Yasser Arafat dichiarava orgoglioso che il ventre della donna palestinese è l' arma più potente del suo popolo». UN PAESE MODELLO Ma di lì a poco le cose si sono ribaltate. Israele è oggi un paese da prendere a modello per tantissime cose, come si è visto, ma anche perché dimostra che c'è una questione culturale e spirituale alla base della prosperità: l'identità nazionale, l'amore di ciascuno (spesso eroico) per il proprio popolo e la propria storia. È questo che fa miracoli, anche di prosperità. Durante la visita in Ungheria dell'estate 2017, nel colloquio con Viktor Orban, il premier israeliano Benjamin Netanyahu disse: «Penso che l'Europa debba scegliere se vuole vivere e prosperare o se vuole avvizzire e scomparire». E poi - menzionando il muro costruito per scongiurare attentati - aggiunse: «Proteggete i vostri confini». di Antonio Socci