dopo le sentenze

Immigrati, parte l'operazione Albania e il Pd si affida alle toghe

Fausto Carioti

Colpire il governo Meloni in Albania, con l’aiuto dei magistrati, per ferirlo a Roma. Il disegno è questo ed Elly Schlein lo mostra alla festa del Foglio, esultando perché «una sentenza della Corte di giustizia europea fa scricchiolare l’intero impianto su cui si basa l’accordo di Giorgia Meloni con l’Albania». Si riferisce alla decisione dei magistrati di Strasburgo che, pur riguardando altro (un ricorso contro il ministero dell’Interno della Repubblica Ceca), di fatto mina il protocollo firmato da Meloni ed Edi Rama il 6 novembre. Da quel giorno, per mesi, la sinistra italiana è stata convinta che gli impegni scritti lì sarebbero rimasti lettera morta. Che i due centri in territorio albanese- quello per lo sbarco, a Shengjin, e quello per l’esame delle domande d’asilo e i rimpatri, a Gjader – non sarebbero mai stati costruiti. A confortarla provvedevano i ritardi e gli imprevisti che hanno reso impossibile la partenza dell’operazione a maggio, come previsto inizialmente.

Adesso, però, ci siamo: i primi migranti potranno essere portati lì nei prossimi giorni. Si inizia con una capacità di quattrocento persone, mentre si continua a lavorare per completarla e portarla a mille. «La settimana prossima si parte», ha confermato ieri Matteo Piantedosi, ribadendo che si tratta di strutture analoghe a quelle già presenti sul territorio italiano, a Porto Empedocle e altrove. «Sono di contenimento leggero, non sono dei Cpr. Non c’è filo spinato, c’è assistenza. Tutti possono fare richiesta di protezione internazionale», ha assicurato il ministro dell’Interno. Ma la sinistra, intanto, ha già corretto la sua strategia. Ora che l’“operazione Albania” sta per iniziare e non si può più dipingerla come una grande incompiuta, l’imperativo è quello di delegittimarla. E la segretaria del Pd ha ragione quando dice che le toghe stanno svolgendo un ruolo importante: la sentenza emessa dalla Corte di giustizia europea il 4 ottobre è arrivata al momento giusto.

È la storia che Libero ha raccontato l’11 ottobre. Secondo i magistrati dell’organo giurisdizionale della Ue, le direttive europee impediscono ai governi nazionali di decidere liberamente quali Paesi di origine siano sicuri per gli immigrati (che quindi possono essere rimpatriati se la loro domanda d’asilo è respinta) e quali no. Impongono inoltre criteri che, interpretati alla lettera, consentirebbero di etichettare come sicuri solo i Paesi occidentali. Appena sei giorni dopo, i giudici del tribunale di Palermo hanno usato la sentenza emessa a Strasburgo per impedire che cinque tunisini sbarcati illegalmente in Italia fossero trattenuti per esaminare le loro richieste d’asilo, come chiesto dal questore: la Tunisia, che per i ministri è da ritenersi sicura, per le toghe non lo è, giacché lì l’omosessualità è reato.

Se il ricorso del Viminale contro la sentenza dei giudici siciliani non avesse successo, le conseguenze saranno enormi. Aumenterebbero le probabilità che siano accolte le domande di protezione presentate da chi proviene dai Paesi africani più avanzati, visto che nemmeno lì, secondo i magistrati, i diritti umani sono rispettati quanto basta. Lo stesso principio usato per quei cinque tunisini, infatti, dovrebbe essere applicato a chi arriva da altri Paesi che per il governo sono sicuri: un elenco aggiornato ogni anno che oggi comprende ventidue Stati, tra i quali, oltre alla Tunisia, Algeria, Bangladesh, Egitto, Gambia, Marocco e Nigeria. Paesi a maggioranza islamica, le cui legislazioni in materia di diritti delle donne e degli omosessuali non sono esattamente sugli standard svedesi. Nell’attesa i cittadini di quegli Stati, presentando richiesta di asilo, potrebbero girare liberi in Italia, dove la loro posizione sarebbe valutata con la procedura normale anziché con quella veloce (quattro settimane), che in caso di diniego termina con un rapido rimpatrio.
Ele navi dello Stato italiano, dopo averli recuperati, non potrebbero sbarcarli in Albania, dove possono essere esaminate solo le domande degli uomini adulti provenienti dai Paesi extracomunitari sicuri. Per questo Schlein sente di avere, grazie ai magistrati, buone carte in mano. Sul fronte politico opposto, a conclusioni simili è giunto Alfredo Mantovano. Il sottosegretario di palazzo Chigi, sempre misurato nei giudizi, ieri ha detto al Foglio che l’esistenza di una magistratura ideologizzata, desiderosa di frenare l’azione del governo, «è una constatazione».

 

 

E cita come esempio proprio la sentenza di Palermo: «Quando nella disciplina dei migranti un giudice dice o scrive nei provvedimenti che deve essere il giudice l’arbitro della decisione dei Paesi cosiddetti sicuri, cioè dei Paesi verso i quali può avvenire il rimpatrio dei migranti pervenuti illegalmente, mi pare che sia un’entrata a piedi uniti in un’area che non è la propria, perché la determinazione dei Paesi sicuri viene fuori da un procedimento abbastanza complesso che spetta al governo». Quella sentenza non è l’unico argomento che usa la sinistra. Il Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti, ieri ha dato risalto a una notizia già nota: parte degli appalti per la costruzione e la gestione delle strutture in Albania è stata assegnata senza gara. «Affidamenti diretti che sommati valgono oltre 60 milioni di euro», dunque meno di un decimo del totale. Ai quali si è ricorso per acquistare moduli prefabbricati, realizzare impianti elettrici e così via. Per Schlein questo è «un problema procedurale di enorme significato democratico». Nel governo sono tranquilli e assicurano che tutte le leggi sono state rispettate. Gli affidamenti diretti, oltre a riguardare una piccola parte della spesa complessiva, erano l’unico modo per rispettare i tempi. Resta da capire se, anche su questo aspetto, c’è qualche magistrato pronto a entrare in campo.