Il campione e la rossa
Hamilton in Ferrari, il doveroso epilogo
La Ferrari è una malattia e me la attaccò papà. Malattia perché c”è un qualcosa di patologico nel consacrarle le porzioni di tempo che le ho consacrato (a lei, alla Formula 1). Soprattutto quando i gp erano di una noia oggettiva e totalizzante. E c’è qualcosa di patologico nel volerci credere ogni maledetto anno: questa è la volta buona! Ma non la è dal 2007, dal titolo vinto da quel gigante di Kimi Raikkonen.
Poi c’è che la Formula, ormai da una decina di anni, è finita in mano agli americani. Non mi piaceva mica come hanno stravolto tutto, l’arroganza, le forzature degli yankee, le tradizioni che saltano via come tappi di Budweiser. E però lo spettacolo lo sanno fare, hanno vinto loro: i gp non sono più solo un ronzio di sottofondo alle pennichelle domenicali. E poi c’è che quest’anno in Ferrari c’è Lewis Hamilton. Era il suo destino, come è il destino dei migliori, una legge non scritta della Formula 1: da Fangio a Schumacher, da Nuvolari a Lauda. È sfuggito Ayrton Senna: è stato a un passo da Maranello più di una volta, bramava il rosso. Sono certo che quel tempo, se non si fosse fermato a Imola, sarebbe arrivato.
Ecco ora c’è Lewis. Devo ammetterlo, Charles Leclerc mi ha sedotto, sportivamente, fin dal primo bagliore. Tanto da tifarlo al di là di ogni ragionevole dubbio sul pilota che è: il “predestinato” chissà, velocissimo per certo, indubitabilmente cazzuto, campione del mondo ancora no. Spero che lo diventi. Anzi è stata una delle speranze più tenaci che abbia mai nutrito nella mia “carriera” da ferrarista. Eppure ora mi trovo a scrivere “è stata” perché è arrivato lui, sir Lewis Hamilton. Certe cose le capisci subito, figurarsi quando lo vedi fasciato per la prima volta nella tuta rossa. Figurarsi quando lo vedi girare a Fiorano con la SF-25 (e sì, certo, come ogni anno questa è la macchina buona).
Si tratta di storia scritta in tempo reale, il doveroso epilogo per il più forte della sua (infinita) generazione: lui ha sempre voluto la Ferrari e viceversa, si sono trovati soltanto ora. Forse si sono trovati fuori dal tempo, chissà, di anni ne ha 40. Tant’è, quella “certa cosa” che ho capito subito, ecco, è che ora la mia speranza più tenace è veder vincere lui. Leggenda più leggenda. Ve lo immaginate campione del mondo oltre gli “anta”, in Ferrari? Sarebbe l’ottavo titolo, come lui nessuno mai. Sarebbe uno in più di Schumacher, ovvio togliere quel record a uno che è la Ferrari comporterebbe nostalgia, un pizzico di dolore. Ma è il percorso obbligato del mito, dell’eroe tragico, quali sono i piloti di Formula 1, alieni che dopo aver chiuso la visiera del casco si proiettano in una dimensione trascendentale. Poi, intendiamoci, il fatto che lo abbia oggettivamente tradito non significa che Leclerc lo abbia abbandonato.
Tutt’altro. È semplicemente diventato – per ora - il “mio numero 2”. Dopo l’ottavo titolo di Lewis inizi pure il regno del monegasco. Insomma tempo al tempo. Ora godiamoci quel che sta per iniziare, perché al netto delle riflessioni sul me-ferrarista più recondito, che interessano il giusto, avremo il 44 e 16 in griglia, una coppia di fenomeni. Scelta strana, irrituale, almeno per la Ferrari degli ultimi 35 anni: dopo Prost e Mansell (era il 1990) e per certi versi al netto di Alonso e Raikkonen (il disastroso 2014) due così forti, insieme, a Maranello non li avevamo mai visti. Scelta affascinante perché pericolosa: inutile girarci attorno, la rivalità sarà brutale, chissà se gestibile. E se la macchina fosse davvero quella buona può accadere di tutto. Nel bene e nel male. Giorni leggendari o leggendari sgretolamenti. In ogni caso, a un mese scarso dal via al mondiale, per un ferrarista questo è il miglior brodo primordiale in cui coltivare le speranze per quel che sarà. Basterebbe vincere...
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