Arbitri?

Paulo Fonseca, tutte scuse: qual è il problema più profondo del Milan

Claudio Savelli

 E fu così che anche Paulo Fonseca, uomo elegante e distinto, la buttò in caciara. Era chiaro che prima o poi sarebbe accaduto, che presto o tardi avrebbe perso la calma. Sta accumulando tensione dal momento in cui è sbarcato a Milano e non c’è giorno che non abbia dovuto affrontare una peripezia. È stato abbandonato dai leader e ha dovuto faticare parecchio per recuperarli; la dirigenza lo costringe a un “one man show” dialettico davvero poco efficace considerando l’italiano stentato (troppo grezzo per essere già stato in Italia due anni, dal 2019 al 2021 alla guida della Roma, e aver fior di insegnanti al seguito); e ha una rosa sgangherata da mettere in campo.

È difficile dare una forma al Milan, ma non impossibile. Aiutati, Fonseca, che magari il dio del calcio - non Ibrahimovic, beninteso ti aiuta. Siamo a dicembre e non si capisce ancora qual è la formazione tipo, la base su cui costruire. Le ha provate tutte, Paulo: dal 4-2-3-1 classico al 4-3-3 ma solo per un attimo perché manca un regista, poi salto pindarico al 4-2-4 nel derby subito accantonato perché Leao non garantiva la fase difensiva, e allora ecco il 3-5-2 di Madrid immediatamente scomparso per lasciare spazio all’attuale 4-4-2 con quattro centrocampisti centrali schierati contemporaneamente. Anche impegnandosi è difficile vedere un filo logico, una parvenza di progetto tattico. Venti partite, cinque versioni diverse del Milan, zero continuità di rendimento.

 

 

 

SALISCENDI

È un continuo saliscendi (il calendario morbido in Champions aiuta ad avere momenti buoni: mercoledì c’è la Stella Rossa al Meazza) che fa venire il mal di testa anche al più serafico degli allenatori. Lo sfogo di Fonseca è scriteriato perché sa che quello di De Ketelaere non è un fallo clamoroso. Anzi, non è nemmeno fallo e La Penna, per quanto non sia un fenomeno, non lo ha fischiato in coerenza al modo in cui ha arbitrato tutta la gara. Solo che era l’unico appiglio buono per sfogarsi dopo aver perso l’ultimo treno per l’alta classifica ed essersi reso conto che il ritardo si è fatto ormai incolmabile. Fino al giorno prima, va ricordato, Fonseca si diceva sicuro che il Milan avrebbe puntato allo scudetto, quasi come se non si fosse accorto del ritardo già clamoroso in classifica e della quantità di squadre (ben 6, e occhio al Bologna con cui deve recuperare una partita) che aveva davanti a sé. Si è ritrovato a 12 punti dall’Atalanta (con una gara in meno) e a 10 dal Napoli (a parità di gare) e gli è cascato il mondo addosso. Prendersela con l’arbitro è molto più facile che ammettere le proprie colpe.

 

 

 

Vale anche per la dirigenza rossonera che ha fatto sapere per vie traverse (cioè senza dichiarazioni ufficiali) di essere d’accordo con il tecnico. Da un lato è positivo che Fonseca venga sostenuto, dall’altro non è il massimo che ciò avvenga il giorno dopo e in modalità silenziosa: sembra quasi un dovere dettato dal contratto triennale che mette il mister in una posizione di forza, piuttosto che il piacere di sostenerlo. Se poi si mettono insieme lo sfogo di Fonseca a quello di Ibrahimovic di metà settembre («Io sono il boss e gli altri lavorano per me»), risulta evidente il problema del Milan: nessuno ammette di aver sbagliato qualcosa. Sono tutti perfetti e la colpa è sempre degli altri che non fischiano un fallo o non capiscono.

Eppure Moncada ha sbagliato diversi acquisti (Emerson Royal è francamente inspiegabile), Ibrahimovic sembra ancora più giocatore che non dirigente e non si capisce se il rapporto con Furlani funzioni, e Cardinale è un’entità eterea. L’impressione è che ognuno faccia per sé, più concentrato a difendere la propria carriera che non il gruppo, anche se in quelle rare occasioni viene raccontato il contrario. Così ora, paradossalmente, il Milan è più squadra in campo che fuori. Il che è tutto dire.