Tempi che corrono

Bentancur-Son, una battuta un po' fessa vale 12 giornate di squalifica?

Andrea Tempestini

I fatti. Lo scorso giugno un conduttore uruguagio chiese a Rodrigo Bentancur, suo connazionale e centrocampista del Tottenham, se poteva procurargli «la maglietta del coreano». «Sonny?», rispose la vecchia conoscenza della Juve: il riferimento era a Son Heung-min, sudcoreano, suo compagno agli Spurs, forse il miglior calciatore asiatico di sempre. Bentancur aggiunse: «Potrebbe essere anche la maglia del cugino di Sonny, visto che sembrano tutti uguali». Già, i nostri occhi arrancano se chiamati a scorgere differenze tra i volti asiatici, proprio come ai loro occhi noi occidentali «sembriamo tutti uguali». Verità, fesseria o luogo comune che sia, ci sentiamo di poter escludere ogni forma di razzismo.

Ma ovviamente la vicenda innescata dalla frase di Bentancur ha preso un’altra piega. Una piega molto woke, d’altronde Cambridge a quelle latitudini è di casa. Seguono articolesse sdegnate, lo stesso «Sonny» mostra di non gradire e Rodrigo si cosparge il capo di cenere: «Fratello, scusami, era solo uno scherzo di pessimo gusto. Sai che ti amo e non ti mancherei mai di rispetto. Ti amo, fratello». Il caso è chiuso? Obviously not. Ieri la FA, federazione calcistica inglese, al termine di una minuziosa inchiesta – lo si presume dal fatto che la vicenda risale a mesi fa - ha accusato Bentancur di aver «agito in modo improprio» e di aver «usato parole offensive che hanno gettato discredito su un collega». I capi d’accusa: abusi verbali e insulti. L’aggravante: il riferimento ad etnie e nazionalità. In soldoni, l’uruguagio rischia una squalifica fino a 12 partite, se così fosse quasi mezzo campionato, e avrà tempo fino a giovedì 19 settembre per presentare una memoria difensiva.

Ora, proviamo a ragionare. Bentancur e Sonny sono compagni di squadra, le cronache non hanno mai riportato dissapori tra i due, il primo si è scusato con il secondo. Vien da chiedersi cosa potrà mai aggiungere alle scuse, nella memoria difensiva, un papello che appare una sorta di coercizione espiatoria: faccio penitenza, scrivo il mio temino, ammetto di essere stato pessimo, dunque me la cavo. Il punto è che l’uruguagio può essere stato fuori luogo, ma non pessimo.

Dovrebbe esserci una proporzione tra eventuale colpa e sanzione, un principio tanto semplice quanto distorto dalla FA: intendiamoci, 12 giornate sono un’abnormità, una stagione rovinata, pura furia ideologica. E per intenderci ancor meglio teniamo conto del fatto che, sempre in Premier League, Paolo Di Canio fu squalificato per 11 giornate per la celeberrima spinta all’arbitro (con annessa e grottesca caduta della giacchetta nera) mentre Roy Keane se la cavò con 4 giornate di stop dopo aver polverizzato, per vendetta, il ginocchio del padre di Haaland (dopo il processo, per un’entrata criminale che si fatica anche solo a rivedere, le giornate salirono complessivamente a 9). Altri tempi? Vero, ma allora qui guardiamo con profondo sospetto ai tempi che corrono. Per due ragioni, la prima di sostanza, spiccia e per chi non la condivide semplicistica: le scuse, sincere – «Ti amo» – bastano e avanzano. La seconda, forse tendenziosa: se fosse stato Sonny a dire che noi caucasici sembriamo tutti uguali al più avrebbe strappato una risata. Nemmeno il bisogno di una pacca sulla spalla per archiviare il tutto, come è giusto che sia.

Il punto è che noi, qui, oggi, siamo chiamati a scontare un senso di colpa collettivo. Anche quando non lo condividiamo e anche quando non ci sono le ragioni per sentirsi in difetto. Una sorta di rito di purificazione comunitario. E chi prova a sottrarsene, ad argomentare, in soldoni è il male, è un razzista. Peccato che così il concetto di razzismo, un’infamia, finisca con l’essere banalizzato, annacquato, confuso con una frase fatta – «sembrano tutti uguali» - che ferisce solo in virtù di quell’inarrestabile processo di purificazione. Già, il razzismo che c’entra? Ma d’altronde «i politici pensano solo alla poltrona», «le donne maturano prima degli uomini», «ormai il calcio è solo business» e «in Italia son tutti furbi». Ecco: qualcuno si è offeso?