La bellezza paralimpica al tempo di Photoshop

Gianluigi Paragone

L’immagine. Aveva ragione quel vecchio professore brontolone di nome Giovanni Sartori quando ammoniva sul passaggio dall’homo sapiens all’homo videns; perchè l’immagine ha talmente prevalso da aver sorpassato le persone stesse. Non esiste foto che non sia ritoccata dai programmi, dalle app: la macchina fotografica digitale si allontana dall’uso quotidiano perché si esaurisce in una funzione (scatto e catalogazione) non sufficiente a quel che ci serve. Serve scattare alla svelta e ritoccare, riconfigurare, risettarsi. Per condividere e gareggiare nella stessa gara del bello omologato. L’immagine creata supera l’immagine di quel che siamo. Siamo nel tempo in cui cerchiamo la deformazione per apparire più belli. E uso non a caso- provocatoriamente - la parola “deformazione”.

Perché in questi tempi qui, la bellezza delle paralimpiadi è come una secchiata di acqua gelida, diventa uno shock pedagogico, una controsterzata. Nella vita, oltre il patinato, ci sono ancora tutte quelle variabili che non possono essere ritoccate. Tuttavia ognuno di noi può avere la forza di modificare l’impatto di una malattia, di un incidente, fino a raggiungere cime incredibili come dimostrano questi atleti. Il mondo sportivo della disabilità è fatto di campioni che arrivano alle loro olimpiadi, ma è fatto di tante altre persone che giocano esattamente come facciamo noi. Quando indossavo l’uniforme scout (a proposito, gli auguri più belli, cara Agesci: insieme abbiamo trascorso decine di anni meravigliosi; nessun cammino è mai stato più formativo come la strada percorsa con la promessa al collo) cominciai una esperienza di servizio accanto a questi ragazzi: ho imparato - si fa per dire... - a giocare a basket seduto sulla carrozzina e a ping pong; e mi sono buttato in vasca con adolescenti down o menomati. Lo confesso, non è stato facile superare l’impatto. Però è successo e tutto è diventato più familiare. Ci vuole poco per frequentarsi: avete mai provato a lavorare su una carrozzina per adeguarla alla persona? Ecco, può essere un inizio.


Quanta potenza in quella bellezza che rompe lo schema: una atleta senza le braccia come fosse una Venere di Milo, un nuotatore che entra in vasca con la forza delle proprie gambe e del proprio busto come l’Apollo Strangford... La Vittoria del resto è alata ma senza il capo: è la Nike di Samotracia. Lo sport può e deve diventare come quelle protesi, può aiutarci a riportare i canoni delle bellezza dentro l’umanità e dentro la natura, che non è malvagia se strozza nel corpo altezza o pezzi di arti. Una volta un signore mi disse: sono nano e vi ho preso le misure per restare schiacciato. Come cambiano le prospettive quando si ribalta il mondo; potrebbe non essere una tragedia se ci ripensassimo parte della stessa comunità. I disabili fanno sport, fanno sesso, si fidanzano, si sposano, entrano in crisi alla stessa maniera nostra. Cambiano le misure, in un certo senso. Anche noi, in fondo, le stiamo deformando su canoni che non esistono (la bellezza photoshoppata). Non limitiamo a guardare le foto di Bebe Vio che ironicamente girerà le sue calze alla sorella, proviamo a condividere giocando allo stesso gioco, a imprecare allo stesso modo per una buca, a camminare bendati per capire com’è denso il buio quando dura più di 15 secondi, e provate a correre affidandovi a qualcuno per stare in pista. Ecco, c’è una paralimpiade che dura ogni maledetto giorno. E non è meno competitiva.