Il dibattito

Atletica, il razzismo di chi esalta le "medaglie nere"

Tommaso Lorenzini

«Vorrei sommessamente far notare che è grazie ai “nuovi italiani”, i figli appunto dell’immigrazione, nelle sue gradazione di colori, che l’Italia sta dominando gli Europei di atletica». La firma a quanto riportato sopra è quella di Karima Moual, origini marocchine e italiana di seconda generazione, moglie di Vincenzo Amendola (pezzo grosso del Pd ed ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) e volto noto in tv quando c’è da spalleggiare l’immigrazione e attestarsi su posizioni discutibili in difesa dell’islam (riguardo alle donne chiuse dentro un recinto, per la preghiera dell’ultimo Ramadan, intervistata dall’Huffington Post aveva inquadrato la questione così: «Esteticamente poco gradevole»).

La testata che ospita il suo commento è, ça va sans dire, Repubblica.it, a sublimare una ossessione meritevole di una medaglia olimpica (di legno, però), a rendere plastico quando nel gridare continuamente al razzismo contro questa disgraziata Italia si scivoli inconsapevolmente proprio dalla “parte sbagliata”, finendo per essere davvero razzisti, al contrario di quelli che si vorrebbe mandare all’inferno. Perché nell’esaltare con tutte le ragioni le medaglie collezionate in questi giorni da Jacobs e compagnia, la tesi della Moual è la stessa cantilena stanca di sempre: trionfi dedicati (tradotto, da sbattere sul muso, per bieco calcolo politico) «a Vannacci e ai tanti colori dei nuovi italiani», alla faccia dei costruttori del «pericolo della sostituzione etnica».

 

 


Perché però sottolineare a tutti i costi la diversità di origine e provenienza dei nostri atleti, quando quella maglia azzurra indossata dai ragazzi azzera ogni differenza? Perché ammantare implicitamente di un valore più profondo e migliore i successi dei “colored” (sottolineando così il loro essere “colored”: questa sì una greve forma di discriminazione), dando vita così a un’operazione di delegittimazione degli altri fenomeni come Fabbri, Riva, Palmisano, Battocletti, la staffetta 4x400 mista e tutti gli altri italiani “bianchi” che qui non riusciamo ad elencare? Secondo Repubblica, gli italiani di colore emergono e trionfano perché «hanno voglia di essere riconosciuti, spinti dalla fame di un riscatto, che un paese come l’Italia è ora che lo recepisca costruendoci “valore produttivo e competitivo”». E gli altri? Chi sono? Sono dei pazzi che hanno scelto l’atletica per uno sghiribizzo naif? Sono figli di una qualche borghesia xenofoba che gareggiano per motivazioni snob? O forse in pedana e in pista si pensa a sudare e menare duro, fregandosene del colore della pelle dell’altro, lasciando le supercazzole ideologiche ai benpensanti? Del resto molto spesso le opinioni sono anche figlie delle sensazioni e i pregiudizi e gli stereotipi maneggiati dalla sinistra (lei sì prevenuta, a partire dalla urgenza di istituire uno ius sportivo per concedere così la cittadinanza praticamente a chiunque) vanno a sbattere quando a parlare sono i numeri, quando la fotografia della realtà è diversa da come la si vuol raccontare. Ad esempio, su Sky Sport, la sessione serale di sabato sera ha raccolto 1 milione di contatti. Ebbene, i picchi di visione si sono avuti alle 21.20, con 350mila telespettatori collegati per la finale del getto del peso dominata da Leonardo Fabbri, e per la finale dei 100 metri maschili, protagonisti Jacobs e Ali, che ha calamitato 319mila spettatori. Fabbri batte Jacobs: razzismo?
 

MENNEA E LE DIVISE
Perdipiù, il cortocircuito dei moralisti di sinistra diventa completo quando si fa loro notare che i nostri atleti sono tutti appartenenti ai gruppi sportivi militari: sono dunque dei soldati, indossano quelle minacciose divise dalle quali Michela Murgia si sentiva «spaventata». La lezione migliore a chi continua a speculare sul colore della pelle degli atleti azzurri per puntare il ditino (quando è ormai un qualcosa che abbiamo evidentemente e naturalmente metabolizzato) l’ha data molti anni fa l’ineguagliabile Pietro Mennea: «In California mi presentarono a Muhammad Ali: “Ecco l’uomo più veloce del mondo”. Lui mi squadrò sorpreso e mi disse: “Ma tu sei bianco”. “Sì, ma dentro sono più nero dite”, gli risposi facendolo scoppiare in una risata».