La "caccia all'uomo" denunciata da Novak Djokovic rischia di trasformarsi in una slavina sul tennista serbo. Il numero 1 del ranking Atp in conferenza stampa dopo il quarto di finale di Coppa Davis vinto lo scorso 24 novembre a Malaga contro la Gran Bretagna (pochi giorni dopo, sarebbe arrivata la sconfitta per mano di Jannik Sinner e dell'Italia in semifinale) si è sfogato rivelando di essere stato letteralmente"assediato" da un addetto dell'antidoping che prima del match lo ha braccato per costringerlo a sottoporsi al test. Ottenendo, in cambio, un netto rifiuto che ha scatenato però i sospetti in rete, con migliaia di appassionati che chiedono ora la squalifica per il 37enne Nole.
"È successa una cosa incredibile — aveva detto Djokovic, fuori di sé dalla rabbia —, che in venti e più anni di carriera non mi era mai accaduta. Un’ora e mezza prima della partita mi hanno chiesto di sottopormi a un controllo antidoping. Ho la mia routine che non contempla certo la distrazione di farmi prelevare l’urina e il sangue e di pensare se posso donarli quel momento. Eppure un uomo dell’antidoping mi ha seguito passo passo per controllarmi fino alla fine". L'indignazione di Djokovic, di fatto, ha contribuito a sollevare un caso che di per sé era per così dire "nato morto".
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Il regolamento antidoping della Itf (la Internation Tennis Federation) è infatti assai più blando e morbido rispetto a quelli come altri sport, ciclismo e atletica in testa. Nole non rischia alcuna sanzione proprio perché il controllo durante un torneo, anche se a sorpresa, è considerato "in competizione" e ha dunque alcune limitazioni e scappatoie. Tra queste, la possibilità per il giocatore di fornire un campione biologico non "all’immediatezza della notifica" bensì "entro 60 minuti dalla fine dell’ultimo match che si allungano a 120 se la partita è la finale del torneo".
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