Verso la finale

Lautaro Martinez e il "sogno-Milito": Inter-City, cos'altro c'è in ballo

Claudio Savelli

Tredici anni dopo, l’attaccante simbolo dell’Inter è a quota 28 reti stagionali prima della finale di Champions League. Nel 2010 fu Diego Milito, oggi è Lautaro Martinez. In quella notte di Madrid, il Principe diventò re d’Europa con una doppietta al Bayern, arrotondando a 30 il bottino d’annata. Nella notte di Istanbul, sabato, il Toro giocherà con il pensiero stupendo in testa di emulare il suo idolo, nonché l’uomo che l’ha portato all’Inter. Il parallelo è così perfetto da fare impressione. Non al diretto interessato che con il destino sembra aver fraternizzato mesi fa: «Sono a 28 reti come Milito prima della finale? Sono cose che mi arrivano. A volte ci credi e a volte no. Con l’Argentina sono successe tante cose prima di vincere la Coppa del Mondo...». Non è scaramanzia ma fede nel percorso. Come Milito, anche Lautaro da un calcio minore e un mondo più povero, e si sta guadagnando la gloria in silenzio.

L’idea di centravanti di Diego ha innervato Lautaro, che si è convinto di poter e dover essere una punta di classe e fatica, di talento e concretezza, di piede e spirito, in dosi perfettamente equilibrate. Per Lautaro, l’annata che sta per chiudersi è indimenticabile come fu il 2009/10 per Milito. Il Toro ha vinto il Mondiale, si è sposato con l’amata Agustina, è in attesa del secondogenito Theo e ha segnato una doppietta in finale di Coppa Italia.

Anche Milito segnò alla Roma, nello stesso stadio- l’Olimpico- in cui Lautaro ha ribaltato la Fiorentina. In mezzo non è arrivato lo scudetto ma la supercoppa: vincere la Champions League non porterebbe lo stesso triplete del 2010, ma un tripletino sì. Di certo molto meno atteso, se è vero che la squadra di Mourinho era più accreditata rispetto a quella di Inzaghi.

VECCHIO CONTINENTE
La differenza è che Milito, nel 2010, andò ai Mondiali (con un ruolo inspiegabilmente marginale) in estate, da campione d’Europa in carica, mentre Lautaro può alzare la coppa più importante del vecchio continente da campione del mondo in carica. Il resto è una similitudine quasi perfetta, come se gli sceneggiatori del calcio avessero preparato in questi tredici anni il momento della successione tra il Principe e il suo erede. Perché Lautaro è arrivato a Milano grazie a Milito, che l’ha conservato per l’Inter come una reliquia per i tre intensi mesi che vanno da dicembre 2017, quando il Principe diventa dirigente del Racing Avellaneda, fino a febbraio 2018, quando la trattativa tra i club va in porto: per 25 milioni, il Toro sarebbe diventato nerazzurro.

 

C’erano altre società sul talento di Bahia Blanca in quel momento, con una disponibilità economica anche più alta: c’erano soprattutto il Real Madrid e l’Atletico del Cholo Simeone, sempre ben informato sui connazionali. Ma Milito raccontò al giovane cos’era l’Inter e Javier Zanetti fece il resto: Lautaro si innamorò della tradizione argentina nel club nerazzurro, culminata in quel triplete in cui, tra i titolari, erano presenti anche Samuel e Cambiasso.
 

LE ORME
«Voglio ripercorrere le orme di Zanetti e Milito», dichiarò il Toro nell’estate 2018, quando fu presentato al pubblico interista. Ci sta riuscendo perché ha capito il valore del tempo speso in un grande club. Lautaro migliora di anno in anno anche perché ha trovato allenatori capaci di valorizzare le punte: un anno con Spalletti, prima da riserva di Icardi e poi da titolare al suo posto, due con Conte al fianco di Lukaku e due con Inzaghi, quasi sempre con Dzeko. È cresciuto in tutto: i movimenti, la lucidità sottoporta, la serenità, la consapevolezza, la leadership. I gol sono solo un riscontro numerico dell’evoluzione nel gioco. Dai nove nell’annata d’esordio è passato alla doppia cifra costante (21, 19, 25), fino ai 28 attuali. È già il suo record personale, un bottino da grande centravanti. Ne mancano due per diventare grandissimo: come il Principe, per una stagione da re.