Il caso
Pelè, l'ultima vergogna della sinistra: "Non ha fatto nulla per i neri"
Nelle mille vite che ha vissuto, O Rei Pelé, dotato di un cervello superiore oltre che di un talento leggendario, si è cimentato in diversi ambiti, si è confrontato con i leader politici e le massime autorità planetarie, ha lottato per l'educazione dei giovani contro l'uso di sostanze stupefacenti, contro la povertà e contro le discriminazioni razziali e sessuali. Ma a quanto pare non abbastanza. Giacché nessuno, nemmeno Gesù il Nazareno è mai stato simpatico a tutti né esente da giudizi morali mossi da chissà chi, nei momenti successivi alla scomparsa di Pelé c'è chi, coerentemente ai tempi di disumanità ideologica in cui viviamo, ha provveduto a ricordare che la leggenda brasiliana è stata più volte in vita accusata di non essersi battuta troppo per la lotta contro il razzismo. Sui social e non solo, è stato rispolverato il j' accuse che l'ex calciatore francese Lilian Thuram mosse proprio a Pelé nel 2021 al Festival dello sport di Trento. «Pelé non ha mai detto molto contro il razzismo, quando sei a certi livelli devi prendere la parola per aiutare chi è in difficoltà». E, elogiato Maradona («ha sempre detto no al potere») Thuram mosse un altro affondo implicito contro O Rei, che con alcuni discussi leader politici ha avuto un rapporto profondissimo.
ETICHETTE
Un aspetto ricordato ieri l'altro da Le Monde. Pelé è stato ministro dello Sport dal 1995 al 1999 e una volta ha persino sperato di diventare presidente del Brasile. Il suo Ministero per inciso si impegnò molto nella lotta contro la corruzione che affolla il calcio brasiliano. Ma evidentemente sono aspetti meno importanti da considerare per chi vorrebbe cucirgli addosso le etichette di bigotto conservatore, passivo, freddo e con le amicizie sbagliate. La principale critica riguarda il periodo in cui il generale Emilio Garrastazu Médici salì al potere nel 1969, intensificò la repressione in un Brasile in cui le libertà erano sospese e la tortura degli oppositori era diffusa. Per nascondere i suoi crimini, si servì molto della vittoria nella Coppa del Mondo in Messico nel 1970. Pelé, a quasi 30 anni, era al top della sua carriera ed era ormai un Dio. Médici mise il re del calcio sui suoi manifesti di propaganda insieme a slogan patriottici («Brasile, o lo ami o lo lasci», «Nessuno può trattenere questo Paese»). Pelé non protestò e venne in automatico accusato di essere il volto sorridente di una dittatura. Tornato in patria dopo la vittoria contro l'Italia, si recò immediatamente a Brasilia, per tenere in mano la Coppa Rimet accanto a Médici.
Chi lo critica dimentica che Pelè subì l'ira del regime per il suo rifiuto di partecipare alla Coppa del Mondo del 1974 e che, nella sua vita, aprì le porte per un confronto con tutti i governanti, democratici e dittatori, di destra ma anche di sinistra. Tra questi, il fondatore di Brasilia, Juscelino Kubitschek, il sostenitore dei lavoratori Joao Goulart o, più tardi, Lula. E sulla lotta al razzismo? Il "modello Pelé", che lo ha subito in prima persona per una vita intera, non piace perché troppo raffinato e troppo poco volgare. INCOERENTI Alle manifestazioni di dissenso incoerenti e straccione come quelle dei calciatori superstar in ginocchio per il Black Lives Matter, ha preferito anzitutto parlare sempre di razzismo in senso ampio (disse a Uol Esporte nel 2015: «In Brasile abbiamo il razzismo contro i neri, contro i giapponesi, contro gli obesi etc.») e poi invocare esempi come quello di Dani Alves, che raccolse e mangiò una banana lanciatagli in campo dai tifosi del Villareal nel 2014. «I razzisti sono banditi, vanno ignorati». Esattamente come chi vorrebbe dargli lezioni.