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Leo Turrini: "Alla Ferrari serve Agnelli. Marchionne? La rossa era la sua ossessione. E Mattia Binotto..."
"Sono nato a Sassuolo, a pochi chilometri da Maranello. Un vicino di casa faceva il meccanico per il reparto corse della Ferrari. Girava il mondo. Ogni lunedì ero a casa sua, in tv non si vedeva nulla. Le corse sono state la favola della mia infanzia". Leo Turrini, opinionista di Sky e firma di QN, è la persona più titolata per andare a fondo sulle grane di Maranello. È il decano dei giornalisti di Formula 1. Un alfiere i cui ricordi sono scolpiti nel tempo.
Dove corre il pensiero nei giorni di Silverstone?
"Al luglio 2018. Vince Vettel. E batte in casa la Mercedes. È in realtà l'ultima vittoria di Sergio Marchionne, già in agonia, a nostra insaputa. In quei giorni, nessuno si sarebbe sognato di dire che il suo sistema 'orizzontale' fosse sbagliato. Ma quel sistema poteva interpretarlo solo lui, avendo creato un filo diretto, seppur telematico, con gli ingegneri di Maranello".
Marchionne diceva: 'Non abbiamo bisogno di ingegneri esterni, di star a livello tecnico'.
"Gli eventi recenti lo smentiscono. Se per vincere hai bisogno di sottrarre quello bravo alla concorrenza, devi farlo. Lo fece Montezemolo quando prese Ross Brawn, Rory Byrne, Jean Todt. L'approccio di Marchionne alle corse era il suo generale, brusco e sbrigativo, finalizzato ad ottenere risultati subito. Nel 2016 licenziò in tronco James Allison, direttore tecnico, oggi in Mercedes con la medesima mansione. Nel 2017, in piena lotta per il titolo, rimosse Lorenzo Sassi, responsabile del progetto power unit, oggi in Mercedes pure lui. Al netto di questo, la sua dipartita fu una faccenda complessa e non lieve".
Ci spieghi meglio.
"Era innamorato del Cavallino. Era una personale ossessione. L'ultima volta che lo vidi, pochi mesi prima che si ammalasse, mi disse che a fine 2018 sarebbe scaduto il contratto come manager della FCA, e che avrebbe solo fatto il presidente della Ferrari. Stava cercando casa a Maranello. Venuto meno, commisero un grave errore, che ancora oggi pagano. Binotto, nuovo team principal, non nominò un direttore tecnico".
Di Binotto che pensa?
"È sopraffatto da un cumulo di responsabilità. Le qualità sono lampanti, e nutre legittimamente grandi aspirazioni. Ha visto il meglio e il degrado a Maranello, dato che da 13 anni non vincono un titolo. Farebbe meglio a decentrare ancora di più le competenze tecniche".
Ha detto: "Nel DNA della Ferrari ci sono le corse. E la voglia di riprovarci".
"Chi comanda deve avere la consapevolezza di poter perdere, ma anche del fatto che bisogna provare a vincere. Da questo punto di vista, reputo John Elkann un presidente assente, senza passione per le corse. Vedi Baku '19. All'ultimo fermano Leclerc, staccatissimo, per montargli la gomma più morbida e fargli fare il giro veloce in extremis. Si fa, ma significa ben poco se adoperato su una macchina perdente. A fine gara, Elkann si dice contento del giro veloce di Leclerc. Dopo aver preso un minuto dalla Mercedes. Se ti spingi a dire in pubblico una cosa del genere, vuol dire che non capisci cosa sia la Ferrari".
Per vincere, Gianni Agnelli a Montezemolo dava tutto.
"Nel nipote questa sensibilità non la vedo. Alla Ferrari servirebbe il presidente della Juventus, Andrea Agnelli. Da giovane, ha lavorato in F1. Ha passione. Nel calcio ha dimostrato le sue capacità. Saprebbe imprimere una importante inversione di tendenza".
Quella della power unit meno potente è una storia che fa riflettere.
"Gli ispettori, sulle performance della Ferrari da Belgio '19 in poi, non hanno avuto da ridire. Solo dopo è saltato fuori che alcune soluzioni tecniche aggirassero il regolamento. In F1, da sempre, vince chi riesce ad interpretare le aree grigie. Non c'è nulla di strano in ciò che ha fatto la Ferrari. Sarà stata di sicuro qualche talpa a far avere l'esatta documentazione agli ispettori".
Non è che quando lo fanno gli altri si chiudono tutti e due gli occhi?
"Certamente sono tutte coincidenze. Per quanto sollecitata, non ricordo nemmeno una decisione della FIA sfavorevole alla Mercedes. È un fatto. Le loro prestazioni sono oggi superiori a quelle dei qualsiasi altra macchina. Se ciò dipende dal fatto che le interpretazioni del regolamento le abbiano capite solo a Stoccarda, bravi! (sorride, ndr). Senz'altro anche le motorizzate Mercedes sono rinate. La Williams, da fanalino di coda, è vicina alle prestazioni Ferrari. Il balzo in avanti della Racing Point è curioso, e la Renault è convinta che non possano aver partorito una copia della Mercedes 2019 semplicemente guardando una foto. Viene in mente un altro famoso ingegnere, Giulio Andreotti, che diceva: 'A pensare male si fa peccato, ma quasi sempre...".
A parte la malizia ed una macchina, a Leclerc cosa manca ancora?
"Carletto ha un talento naturale straordinario, è pronto per vincere. Il deficit di esperienza è normale. Ha l'istinto della velocità e la capacità di gestire il rischio. L'unica preoccupazione dovrebbe riguardare il morale, soprattutto se, anche l'anno prossimo, si ritroverà una macchina pessima".
Con quella Red Bull non è che lo stesso rischio lo corre pure Verstappen?
"Valente ma non ha mai avuto una macchina che lo facesse lottare per il titolo. Una delle maggiori delusioni di quest'anno credo sia proprio la Red Bull, che ai test di Barcellona pensava di stare addirittura davanti alla Mercedes. Senz'altro hanno puntato su Max. Riprendere in casa Vettel equivarrebbe a dire: divertiamoci un po', e vediamo cosa succede".
La prospettiva della Aston Martin potrebbe rappresentare una buona uscita per Vettel?
"Bisogna vedere quali team siano disposti ad offrire un salario all'altezza del suo prestigio ed una macchina competitiva sul serio. È un ragazzo intelligente. Non è riuscito a diventare l'erede di Schumacher, nonostante da piccolo avesse il suo poster in camera appeso. Ha fatto degli errori ed ha fallito, non vincendo il mondiale. Ma alla Ferrari ha dato tanto, in anni non semplici. Ho grande rispetto per ciò che ha fatto".
Dell'ingaggio in Ferrari di Sainz che pensa?
"Nel momento in cui hanno deciso di puntare su Carletto, leader costruito in casa, non aveva senso che andassero a cercare un top driver. Hanno preso uno solido ed affidabile, senza l'etichetta dello 'spodestatore'".
Bottas potrebbe almeno ambire a diventare il Barrichello della situazione?
"Credo lo sia già. Solido ma senza la pasta del fuoriclasse, che ti rende competitivo a livello estremo, e che Nico Rosberg aveva senz'altro. Infatti, dall'impresa di diventare campione del mondo, Nico ne uscì per la pressione sfinito, preferendo il ritiro. Quello resta un tarlo per Hamilton. E' come se Schumacher avesse perso il mondiale contro il compagno di squadra".
Qual è il primo ricordo di Imola?
"Nel 1985 andai per la prima volta come giornalista, era il GP di San Marino, ed ebbi la gioia di vedere Niki Lauda alla guida, al suo ultimo anno in F1 sulla McLaren. Vinse 'a tavolino' un italiano, il povero Elio De Angelis. Fu l'ultima volta che vinse una corsa. Dico 'a tavolino' perché vennero squalificati Mansell e Prost, per via di irregolarità col peso. Ho sempre nella memoria quella dimensione straordinaria di festa popolare, con Imola che si popolava, in soli 3 giorni, di più di 200mila persone. Era un raduno pagano meraviglioso, rendeva l'idea dell'ottimismo dell'Italia di quel tempo. Una vita a colori. La convinzione che il meglio dovesse ancora venire. Come Paese, non eravamo ancora caduti in quella angosciosa rassegnazione che abbiamo addosso da 20 anni a questa parte".
Imola, a Senna, costò la vita.
"Nel 1984, al debutto con la Toleman, non riuscì a qualificarsi, perché c'erano più di 26 macchine. Uno sfregio. Non a caso, proprio ad Imola, dall'85 al '91, le pole furono tutte sue, seppur con macchine diverse. Questo dà il senso di come possa il destino essere cattivo. Senna adorava Imola. Gli piacevano le donne emiliane, la cucina. Se ne andò in quella che considerava la sua casa. Sono contento per Imola. E di questo ritorno. Spero che a novembre ci sia la possibilità di far entrare un po' di pubblico".
Di Niki Lauda cosa amava?
"E' stato rivoluzionario. Ha modernizzato la F1. Il primo ad introdurre il concetto della preparazione atletica, e dalla corretta alimentazione, con un superamento della vecchia idea del pilota vitellone, ostriche e champagne e notti brave. La sensibilità di guida e la capacita di controllo della macchina erano speciali. Come lui solo Prost, Schumacher, Senna. Nel 1976, quando tornò a Fiorano, 40 giorni dopo il rogo di Nürburgring, ero lì come 'cronistello' locale. Vidi le ustioni aperte, il sangue che gli colava sotto le garze, la voglia di tornare a correre".
Lauda mentore di Hamilton?
"Sì. Nel post carriera è stato determinante per l'investimento di Mercedes in F1. È stato Niki a convincere Hamilton ad approdare in questa scuderia. Nel 2012 la Mercedes era una macchina da quinta fila. Tutti pensarono che Ham stesse dando un calcio alla sua carriera".
Ha detto: "Prost è come Bartali".
"La morte prematura di Fausto Coppi, fatalmente, aveva fatto finire Gino Bartali in un cono d'ombra, in quanto grande avversario di un mito che il destino aveva portato via troppo presto. Prost era sullo stesso livello di Senna. Con la stessa macchina, hanno vinto un campionato a testa. Finì nel cono d'ombra, essendo venuto meno Ayrton".
A fine '93 Prost si ritira. Il suo posto in Williams è di Senna.
"Per anni non si erano rivolti la parola. Una sera del gennaio '94, Senna era a Parigi, per dare il calcio di inizio a Brasile-Francia. Chiamò Prost per invitarlo a cena dopo la partita. Prost ha sempre raccontato che fu una delle serate più belle della sua vita. Non essendo più competitor, la sensibilità di Senna emerse anche nei confronti dell'ex rivale. Al funerale di Senna, in Brasile, la sua famiglia volle che Prost portasse la bara".
Un loro ricordo in pista?
"Fine anni 80. Gran Premio di Francia. Nelle qualifiche Prost fa il miglior tempo. Rientra ai box e dice: 'Non giro più, questo tempo non lo batte nessuno'. Senna doveva ancora uscire. Restò basito. Ma era così. E questo dava l'idea del senso della perfezione, e del limite, che Prost aveva".
Senna temeva solo Nigel Mansell, detto il leone.
"Era imprevedibile. Un guerriero con un grande istinto. Avrebbe potuto vincere più di un mondiale. Durante un Gran Premio, Riccardo Patrese era convinto che la corsa sarebbe stata sua, e invece durante le qualifiche Mansell tornò in pista ed abbassò il tempo di quasi mezzo secondo. Nei garage della Williams, Patrese gli diede un gran strizzata di coglioni. 'Cosa fai!', disse Mansell. 'Volevo controllare se ne avessi tre, perché non esiste che tu abbia fatto quel tempo lì'".
Che persona è Michael Schumacher?
"Non lo so. Nessuno lo sa. Non ha mai voluto concedersi, nemmeno per una caffè. Quando glielo fecero notare, beffardamente disse che se avesse dovuto concedersi per un caffè con tutti, ne avrebbe dovuti bere 400 al giorno. Troppi. Nel '94, dopo la morte di Senna, rimase l'unico pilota su cui puntare. Più tutti lo cercavano, più il distacco 'personale' che creava era immenso".
Un mancato campione?
"Stirling Moss. Enzo Ferrari ha sempre detto che fosse il più bravo. Anche più di Fangio. Per stare all'epoca più recente, ti dico Gilles Villeneuve. Ultimo eroe di un automobilismo finito con lui. Quello dell'audacia, del pericolo, dei giri su 3 ruote, dello stress. Penso che il destino gli abbia negato il mondiale che nel 1982 sicuramente avrebbe vinto".
Fosse stato un pilota, in quale epoca avrebbe voluto correre?
"Tra il '75 e l'85. C'era Lauda, arrivò Villeneuve. Avrei fatto in tempo ad avere in pista Senna e Prost. C'erano soluzioni tecniche impressionanti. Come la Tyrrell 6 a ruote. E un contesto più umano. Le macchine erano meno perfette di oggi, si guastavano addirittura. E il pilota qualcosa ancora contava".