Angelo Colombo, "Io solo in mezzo ai fenomeni del Milan": il racconto della sua parabola rossonera

Francesco Perugini

«Ci sono partite che sai di vincere prima di giocare. Non riesco a dimenticare il silenzio incredibile nel viaggio dall' albergo allo spogliatoio. Sapevamo che avremmo vinto». Angelo Colombo se lo ricorda bene quell' 1 maggio 1988, il giorno di Napoli-Milan 2-3, quando iniziò la saga degli Immortali di Arrigo Sacchi.

Vittoria in trasferta, sorpasso in classifica e ipoteca sullo scudetto: come andò?
«Fu la svolta della nostra storia. Uscimmo tra gli applausi dei tifosi napoletani, sportivissimi. In quegli anni la vera rivalità era con gli azzurri, più che con la Juve o l' Inter: non erano mai sfide noiose con due reparti d' attacco incredibili». E Sacchi diceva: «Per vincere servono undici Colombo e non undici Maradona».

Era così?
«Fa piacere ricordarlo, ma la verità è che andavamo a memoria, eravamo talmente concentrati da andare in campo quasi in trance. All' epoca tutti facevano le stesse cose, Sacchi portò una rivoluzione come l' Ajax di Cruyff. Ma non era solo quello: il presidente Berlusconi stava con noi tutto il sabato, era un vulcano di motivazioni. E c' erano 60-70 mila abbonati. Noi eravamo giovani e affamati, solo Franco Baresi aveva vinto lo scudetto della Stella con Gianni Rivera».


Non fu semplice all' inizio. Il momento più duro?
«I primi due mesi furono complicati. Uscimmo dalla coppa Uefa contro l' Espanyol a Lecce e fu pesante. Da lì iniziammo a ingranare e acquisimmo sicurezza. Poi il petardo che colpì Tancredi e ci costò la partita con la Roma. Dico che le partite decisive si vincono ed è bellissimo, ma è il percorso che ti lascia ricordi ed emozioni».

Le piace la fama di gregario?
«A furia di dirlo diventa vero (ride, ndr). Dicono mi si notasse di più perché ero l' unico biondo in mezzo a tanti mori, ma giocavamo così corti che le corse erano sempre corte e rapide. La settimana prima del San Paolo vincemmo il derby 2-0: Gullit a un certo punto prese palla nella nostra area e arrivò in quella di Zenga con tre avversari attaccati. Ruud di sicuro correva più di me».

Il trionfo più bello?
«La finale di Barcellona contro la Steaua, la prima Coppa Campioni: era l' approdo di due anni di lavoro. Anche in quel caso si sapeva già chi avrebbe vinto, eravamo tutti sulla stessa frequenza. Eravamo la squadra più forte del mondo? In quel momento non ce ne accorgevamo. Il possesso palla di Guardiola a volte è soporifero, solo il Liverpool di Klopp è aggressivo e spettacolare come lo eravamo noi».


Sacchi pretendeva troppo? In fondo con quei campioni molti pensano che avreste vinto lo stesso...
«Forse sì, Fabio Capello ha vinto quattro scudetti con buona parte di quel gruppo. Però non sarebbe stata la stessa cosa, non ci sarebbe stato quel gioco che tutti ricordano ancora oggi. Sacchi era molto esigente con noi, ma ancor di più con se stesso. Era esagerato, non aveva mai un attimo di relax per recuperare. Si stava ammalando per questo e a Parma diede le dimissioni».

Dopo la seconda Coppa Campioni finì al Bari e poi in Australia. Come mai?
«Salvemini mi voleva e decisi di andare in Puglia, non ci fu nient' altro. L' Australia? C' erano già stati il papà di Bobo Vieri e Andrea Icardi. Una sera un ex ragazzo della Primavera mi invitò a raggiungerlo ai Marconi Stallions. Fu bellissimo, all' epoca si giocava solo nella parte occidentale del Paese tra Sidney, Melbourne e Adelaide. Oggi faccio l' opinionista e ho il brevetto di volo: un' emozione unica. Ho fatto il master da allenatore mentre lavoravo nel settore giovanile del Milan, ma non ho mai praticato».

Ultimamente il libro di Van Basten ha riacceso la discussione su quegli anni. Lei l' ha letto?
«Ho visto che ha sparato un paio di colpi. L' ho comprato, ce l' ho sul comodino, ma ora sto leggendo altro...».

Fa il tifo per Paolo Maldini ancora nel futuro del Milan?
«Assolutamente. Ci vuole la memoria storica e la mentalità giusta per portare avanti il dopo-Berlusconi. Ora vedo un cantiere aperto, speriamo che lavorino nel modo giusto».