Tutta la verità

Lewis Hamilton, la confessione del campione del mondo: "Formula 1, perché non mi diverto"

Andrea Tempestini

Un ex bravo ragazzo trasformato in bad boy dai mondiali vinti, dai soldi, dalle belle donne e dalle luci del jet-set. Lewis Hamilton è tutto questo ma pure molto altro, anche se quell’aria un po’ tamarra da smanettone sempre pronto a far girare il retrotreno della sua monoposto resta il suo vero marchio di fabbrica. Come fece nel 2007, quando si presentò al mondo con la McLaren al tornantino del Loews di Montecarlo. Ma quale che sia sotto la corazza, Hamilton è di certo il volto da copertina di ognuna delle ultime 11 edizioni del mondiale di F1. In Messico, dopo il primo match point sprecato in Texas, porta a casa il suo quarto titolo (come Prost e Vettel, primo britannico di sempre a riuscirci)), ma nel racconto della sua vita spericolata il numero di successi iridati resta un dettaglio. Quando nasce nel 1985 a Stevenage in Gran Bretagna, il nonno era approdato già da diversi anni nella terra di Sua Maestà dall’isola caraibica di Grenada (anch’egli «pilota», ma di scuolabus). A 6 anni inizia a guidare una macchinina radiocomandata più veloce di persone con il triplo della sua età. In famiglia, allora, si indebitano per metterlo su un kart, dove vince a 10 anni il campionato britannico. Due anni dopo il leggendario incontro con Ron Dennis, boss della McLaren, a cui dice: «Un giorno mi piacerebbe guidare una delle sue auto». Il motivo è presto detto: la monoposto di Woking era la stessa che guidava il suo idolo, Ayrton Senna. Dennis si fida, lo iscrive nel programma della McLaren e Lewis battaglia per anni nei kartodromi d’Europa con tutta una generazione di piloti che conoscerà bene: Kubica, Rosberg, Vettel. Vince il campionato europeo di Kart Formula A, quello di Formula Renault 2.0, quello di Formula 3 e quello di Gp2. Poi, nel 2007, sciocca la F1. L’aria da enfant prodige lascia il posto a quella del ribelle, solitario e taciturno, a causa della pressione mediatica, dell’ingombrante presenza del papà-manager, ma anche dello scontro duro con Alonso. Per un solo punto lascia il mondiale a Raikkonen, ma si rifà alla grande l’anno dopo, quando Massa a Interlagos perde la chance di laurearsi campione e Lewis diventa, a 23 anni 9 mesi e 26 giorni, il più giovane di sempre a riuscirci. Il primo sigillo di un predestinato che però nelle stagioni successive sperimenta una regola vecchia quanto lo sport: è più facile arrivare in alto che rimanerci. Nel 2009 la Brawn Gp sbanca il mondiale, e lui si consola con i contratti milionari, la notorietà, gli amici vip e la relazione con la bella Nicole Scherzinger. Non vince titoli fino al 2014, ma fa sempre parlare di sé. Per il razzismo dei tifosi spagnoli nei suoi confronti, le scorrettezze in pista, le polemiche con la FIA. Ma soprattutto per il divorzio dalla McLaren, per passare alla Mercedes parecchio in difficoltà guidata da Michael Schumacher. Nel 2014, però, fa jackpot. L’arrivo della tecnologia ibrida e la rivoluzione del regolamento rimescolano le carte. Lewis vince due titoli di fila, si tinge i capelli biondo platino, incide un album con Kanye West e appare nel film Zoolander 2. Alterna i podi alle copertine delle riviste scandalistiche. Impersonifica il suo tatuaggio: «Still I rise» (Comunque vado in alto). Nel 2016 chiude per la seconda volta in 11 anni alle spalle del compagno di squadra di turno, l’amico-rivale Rosberg, ma quest’anno torna di gran carriera il badass che gli piace essere. Si fa tamponare da Vettel, polemizza con safety car e meccanici, supera l’idolo Senna per numero di pole conquistate in carriera. Trionfa, a modo suo, preparando le gare decisive suonando la pianola o visitando la Nasa. A lui la vita del Circus proprio non piace: «Quando si diventa piloti di F1 si vive e si respira corsa. Nessun divertimento, nessun sorriso». Lewis, in finale, è tutto qui. Un ragazzo venuto dal nulla che va ghiotto di pollo fritto, liquirizie e Nutella. Lui, che ha avuto storie con le donne più belle del mondo (Rihanna compresa) ma che alla fine non rinuncerebbe solo alla mamma: «Quando c’è lei nel box (come ieri in Messico, ndr) è come se avessi 100mila tifosi». Un divo anni ’70, alla James Hunt, col cuore da bamboccione. di Daniele Dell'Orco