Infilzato

Corrado Augias, la sceneggiata del martire senza epurazione

Giovanni Sallsuti

Continua un oggettivo miracolo del governo di Giorgia Meloni: la moltiplicazione dei casi di martirio autoindotto. È il clima tipico dei tempi in cui il fascismo «un po’ c’è un po’ non c’è», come ha scritto su Repubblica l’ultima di queste vittime ossimoriche, Corrado Augias (e non era riportata avvertenza si trattasse di un pezzo di satira, quindi va preso sul serio). 

«Nessuno mi ha cacciato, ma nessuno mi ha trattenuto», ha raccontato con la solennità di un Gramsci che si avvia alle carceri fasciste. Nel suo caso, la prigione dorata di La7. Cioè, come avviene in tutti i regimi, un professionista va a lavorare in una delle tv private che agiscono liberamente sul mercato, spesso ostentando una linea critica col governo. A Teheran si sta peggio, ma per Augias, 88 annidi cui 63 passati in Rai, lo scandalo è che non si poteva più lavorare «con persone amiche in un ambiente cordiale». 

Non sappiamo a cosa si riferisca, anche perché sappiamo che a volte ha un concetto dell’“amicizia” particolare, ad esempio secondo gli ex servizi segreti cecoslovacchi in piena Guerra Fredda, col nome in codice di Donat, era buon amico di un loro uomo a Roma. In ogni caso, per Augias questo governo fascista a giorni alterni vede nella Rai «la possibilità di raccontare in altro modo, a costo di rovesciarla, la nostra storia dal 1948 a oggi». 

E a lui “raccontare in altro modo” non piace, anzi non piace proprio raccontare, preferisce copia&incollare, come svelò Libero a proposito di “Disputa su Dio”, libro scritto con Vito Mancuso: una pagina della parte di Augias era tratta di peso da “La creazione” di Edward O. Wilson. «Una macchia sulla camicia bianca», ha detto al Corriere. Prima che le nuove camicie nere lo spingessero «fuori dalla Rai», ma «senza bisogno che qualcuno mi chiedesse di accomodarmi». Sono le epurazioni in assenza di epuratore, è il fascismo a intermittenza. La faccia di tolla, invece, è una costante.