Numeri, numeri
Sanremo 2025, i gufi non cantano più: Amadeus? I conti del Pd non tornano
Te la do io TeleMeloni. I gufi di Sanremo non cantano più. Record di ascolti per la prima serata del Festival, vista in media da dodici milioni e 218mila italiani, contro i dieci e mezzo della scorsa edizione, ma il picco è di diciassette milioni e 800mila. Carlo Conti, Antonella Clerici e Gerry Scotti hanno raccolto il 65,3% di ascolti (65,1 nel 2024), con uno share massimo del 72%, intorno alle 22. Amadeus? “Chissà chi è?”, si chiamava, beffardo, il format con cui il conduttore di Sanremo 2024, e delle quattro edizioni precedenti, ha fatto flop, dopo aver traslocato sul Nove. Ha chiuso il 21 dicembre, come regalo di Natale ai telespettatori, senza essere mai andato sopra il 3,6%.
Amadeus chi? Si chiedevano ieri all’Ariston, con intima soddisfazione, i dirigenti Rai, quelli accusati di aver trasformato la tv pubblica in un feudo della destra, di aver privato l’azienda dei suoi grandi talenti e di averla condannata al tramonto. Amadeus chi? Forse si chiedeva Carlo Conti, costretto a due pubbliche dichiarazioni di antifascismo prima ancora di salire sul palco e al quale però nessuno ieri aveva voglia di fare domande politiche. Il conduttore ha ostentato classe e professionalità, oltre a una buona dose di scaramanzia. Aveva detto alla vigilia, mettendo le mani avanti, che gli ascolti non gli interessavano, non si è gonfiato il petto il giorno dopo, quando essi lo hanno premiato. Stasera, è fisiologico dicono gli esperti, la curva scenderà, ma intanto la prima tappa è vinta.
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Ad ammosciarsi fin dal primo giorno invece- che dispiacere - sono stati i palloni gonfiati che un anno fa avevano sparato a palle incatenate contro il nuovo corso, dipingendo una Rai finita in mano a degli incompetenti in preda a un furore ideologico destinato a distruggere l’azienda. Pistole scariche e pistola azzittiti. Il Pd aveva portato il caso dell’addio di Amadeus in Vigilanza Rai al grido «la tv pubblica finirà come Alitalia». «Tra un po’ da Viale Mazzini se ne andrà anche il cavallo» (copyright Filippo Sensi) avevano ironizzato i parlamentari dem addetti alla comunicazione. E vai con le sentenze, «perdita gravissima», si disperava M5S, «azienda inospitale, condannata al declino» (analisi del santorino Sandro Ruotolo), recriminava la stretta cerchia di Elly Schlein. La stampa progressista faceva il coro: Giorgia Meloni non si è messa in ginocchio davanti al grande artista, l’hanno lasciato solo, non bastano i milioni a trattenerlo, volevano imporgli Pino Insegno, Giuseppe Povia e pure Hoara Borselli.
Si sono sprecati anche i retroscena, con Dagospia che raccontava che Amadeus se ne andava per colpa dei trattori: lui voleva portare la loro protesta sul palco, il direttore generale Giampaolo Rossi si sarebbe opposto, la mediazione della lettura di una lettera degli allevatori non è stata gradita dal conduttore. Aveva capito tutto Michele Serra: «Amadeus lascia per le interferenze politiche, che in Rai ci sono da sempre ma con la destra sono diventate indecorose, sfrontate, devastanti». Baggianate, smentite un anno dopo dai fatti. A Sanremo 2025 i Conti (di Carlo ma non solo) tornano: l’ascolto sale e con esso anche gli introiti pubblicitari del Festival, che finanziano metà della stagione. Nel 2024 Sanremo aveva portato 42 milioni alle casse Rai, quest’anno pare sessanta e, se lo share resta a certi livelli, nel 2026, edizione già appaltata al presente conduttore, non potrà che andare meglio.
Com’è possibile un ascolto record senza la Costituzione di Roberto Benigni, le pomiciate omo di Fedez e Rosa Chemical, i pistolotti che trasudano disprezzo di Rula Jebreal, le interviste a Volodymyr Zelensky, le lezioncine femministe, le iniezioni di politicamente corretto e perfino senza quel genio assoluto di Fiorello? «E cantava le canzoni...», risponderebbe, se fosse vivo, Rino Gaetano, che nel 1978 si presentò in frac e tuba con la sua “Gianna”. La lezione di Conti, il conduttore scelto perché alla fine metteva d’accordo tutti, il pompiere normalizzatore che non ha bisogno di tirare notte fonda per alzare lo share, anzi lo sfida chiudendo un’ora e venti prima di Amadeus e un quarto d’ora prima di quanto previsto dalla scaletta, è che il Festival tira anche deideologizzato e che il cuore dello spettacolo sono i cantanti. Non serve fingersi compagni, o arruolare lo star system rosso, per fare audience. Gli italiani sono conservatori, Fedez piace di più se torna pop piuttosto che tribuno del popolo e Tony Effe è più digeribile se, ripulito, fa il Franco Califano buono anziché l’incavolato di strada con i milioni sul conto.
E poi c’è la lezione della Rai, a chi se ne è andato e a chi la critica perché non la governa più. La nostra è la sola tv pubblica capace di produrre e allestire uno spettacolo come Sanremo, ricco, complesso, con ascolti che non hanno eguali e ha a disposizione un magazzino di artisti ineguagliabile, non tutti in vendita o dediti alla prostituzione politica. Infine, Festival deideologizzato e depoliticizzato, ma con una visione, per una volta ottimista, pro e non contro. Da Bianca Balti che dichiara «non sono qui come malata di cancro ma per dimostrare che sono viva», alla pace cantata non come un inno globalista ma alla Jovanotti, il più positivo dei nostri artisti, al duetto tra la palestinese Mira Awad e l’israeliana Noa come risposta alla guerra, Sanremo ha recuperato il proprio ruolo, ecumenico, non divisivo, elegante, tradizionale.