Controprogrammazione
Acab, i No Tav contro la fiction: non ci dipinge da eroi
Acab piace a molti ma non a tutti. Soprattutto in Val di Susa. I manifestanti No Tav, infatti, sognavano evidentemente che la nuova serie tratta dall’omonimo libro Acab di Carlo Bonini, già divenuto un film nel 2012, diretto allora da Stefano Sollima, fosse un’apologia della battaglia No Tav contro i “poliziotti bastardi”.
Non è andata così. La serie, prodotta da Netflix e Cattleya, è in realtà un viaggio quasi intimo che passa dall’epicità degli scontri (grazie alla grande perizia del regista Michele Alhaique) a una analisi intima che guarda dentro la Polizia come istituzione ma forse in maniera ancor più dettagliata dentro le umanità degli agenti della Celere. Una banalizzazione secondo gli ormai pure datati militanti No Tav della Val di Susa che hanno così pensato bene di stroncare (neanche fossero critici cinematografici) il prodotto già di assoluto successo, in poche ore campione di visualizzazioni e primo nella top ten di Netflix.
«Quello che abbiamo visto non ci ha colpiti: la Val Susa è solo un pretesto narrativo per introdurre la storia dei reparti Celere protagonisti». Un modo «macchiettistico e violento» di rappresentare la lotta No Tav, proseguono i militanti in protesta che, per dirla tutta, nel corso della serie sono appellati da Mazinga (Giallini) e soci celerini come “zecche”. Quindi, verrebbe da dire, proprio nessuna pietà. Invece no, perché nel corso degli episodi c’è un pm molto intuitivo che si insedia nella sede romana dei reparti speciali della Polizia, in cerca di prove sugli abusi commessi in Piemonte. Eppure ai No Tav recensori non basta.
«La rappresentazione equilibra forzatamente le violenze», continua la nota del movimento valsusino, suggerendo una simmetria, con un ferito per parte, come se il peso reale della repressione fosse bilanciato. In realtà, il divario è ben più marcato e lo dimostrano le inchieste giudiziarie che ci hanno colpito in questi anni, gli annidi carcere elargiti come se fossero noccioline, i nostri feriti e il territorio militarizzato come se fossimo in guerra”. Secondo i manifestanti insomma si starebbe tentando «di far credere al vasto pubblico globale di Netflix che le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in Val Susa – e altrove – siano una reazione inevitabile, giustificata dalla tensione generata dai manifestanti» in cui «la stanca e falsa narrazione della “mela marcia” nega, di fatto, la verità incontrovertibile per cui è il sistema ad essere violento, imponendo con la forza ciò che viene rifiutato da più di 30 anni in questa valle».
Una bocciatura senza appello alla quale, c’è da dire, regista, produttore e Marco Giallini, attore principale, unico ad aver traslocato dal set del film d’origine, si erano detti già pronti. Come pure a fronteggiare le strumentalizzazioni che, visto il tema particolarmente divisivo, sicuramente arriveranno. A giudizio dei protagonisti che hanno immaginato e portato in scena Acab però la serie è pronta a reggere ogni urto. Addirittura la «controprogrammazione» che i valsusini suggeriscono.
I vecchi No Tav, invitano tutti a vedere un altro docufilm: Archiviato in cui «sono elencati una piccola parte degli abusi che abbiamo subito in questi anni» nei quali evidentemente l’imperativo dei No Tav valsusini resta: non mollare “La nostra Resistenza», garantiscono sicuri, «ci porterà alla vittoria e questo è quanto basta».